Chimbe - 1

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La rivista dalle

dita asciutte

Elena monta sul secondo vagone e percorre il corridoio in cerca d’un sedile vuoto. Scruta i volti dei passeggeri per capire dove non sedersi: in fondo, tre posti liberi su quattro, e un signore dall’aria rassicurante. Sistema la borsa nello scomparto, sfila il cappotto, un’occhiata allo smartphone e un veloce scambio di messaggi mentre il treno inizia la sua corsa. Quindi ripone il cellulare e osserva. Il signore che le siede di fronte sembra assorto nel paesaggio che corre di là dal vetro. Su un sedile vuoto, due riviste. - Sono sue? Posso? - domanda al signore. - Prego. - Grazie, - risponde Elena con una leggera sensazione di déjà vu. Inizia a sfogliare la prima rivista, quella dalle immagini sgargianti. L’uomo sbircia di sottecchi e nota in lei un gesto all’apparenza banale: quello d’inumidirsi il dito per voltare pagina. Un piccolo tin annuncia l’arrivo di un messaggio. Elena inizia una conversazione senza smettere di sfogliare. Quindi posa la prima rivista e osserva il contenuto della seconda. Una gran quantità di testo le suggerisce che contiene dei racconti. Vede un’illustrazione che la attrae e inizia a leggere. Qualche minuto dopo il cellulare tintinna, ma Elena è talmente assorta nella storia che non se ne accorge.


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Al quinto messaggio, il passeggero seduto di fronte la interrompe. - Il telefono la reclama, - le fa notare sorridendo. Elena ringrazia, posa la rivista e silenzia il cellulare. - Lei legge molto? - domanda lui. - Mi piacerebbe, ma mi manca il tempo. - A chi lo dice. Non ricordo più l’ultima volta che sono riuscito a finire un libro. Colpa del mio lavoro. - Di cosa si occupa? - Ho un’azienda. Lei? - Impiegata. Ma ho un marito e due figli, e il viaggio in treno è l’unico momento che posso concedere alla lettura.

di catturare il senso, lo spirito della sua attività, e al tempo stesso intrattenere il lettore. Perché secondo lui ogni imprenditore in fondo è un eroe, e ogni impresa è una storia da raccontare. - Una bella idea. - Anche io ho risposto così. Una bella idea. Ma la domanda che mi sono posto è stata: avrebbe funzionato anche nel mio caso? - E la risposta? - Abbiamo fatto una scommessa. Un esperimento: avrei lasciato due riviste sul sedile di un treno. Una classica rivista patinata e la sua. E avrei osservato la reazione delle persone. Elena guarda le due riviste, poi l’uomo, e sorride.

- Che gliene pare di quella rivista? Ha letto il primo racconto?

- E io ho fatto da cavia.

- Mi è piaciuto. Lo ha letto anche lei?

- Ora però deve dirmi cosa ha dedotto, guardando me.

La domanda di Elena è superflua: in modo del tutto inspiegabile sa come proseguirà il dialogo. E che quel signore sta per raccontarle una storia. - In un certo senso. C’è una vicenda dietro quel racconto. Le va di ascoltarla? - Volentieri. - Bene: un paio di mesi fa ho conosciuto uno scrittore. Io ho un debole per le persone creative e piene di entusiasmo, così abbiamo avuto una lunga conversazione. Lui mi ha illustrato un progetto editoriale sul quale stava lavorando. Una rivista pensata e scritta con un linguaggio originale. Un linguaggio che secondo lui avrebbe rivoluzionato il modo di intendere la pubblicità. Mi ha parlato di storytelling e di world building. - World building? - Sì. Costruzione di mondi narrativi. Lo scopo del progetto era modellare sulla figura di un imprenditore un racconto di finzione in grado

- Spero non si sia offesa.

- Nella prima rivista c’era una pagina con la pubblicità della mia azienda e lei non l’ha notata. - Come lo sa? - Se le dicessi che conosco già la risposta mi prenderebbe per matto. Diciamo che è un’intuizione. Comunque era quella dei mobili. - Mi spiace, non la ricordo. Di solito salto le pubblicità di prodotti a cui non sono interessata. - Appunto. - E l’altra rivista? - domanda Elena. L’uomo non risponde. Una veloce deduzione, poi la donna s’illumina: - Un momento. Quella famiglia di imprenditori che crea un impero partendo da una scatola di cartone è la sua? Lui sorride. - Già. Elena fissa l’uomo e comincia a percepirlo in modo diverso. Compara mentalmente persona


Chìmbe racconti di imprese

numero 1 - aprile 2016 periodico trimestrale a distribuzione gratuita registrato il 9/11/2015 col numero 12 presso il Tribunale di Cagliari _____________ direttore responsabile: Daniela Oggiano editore: Chìmbe di M.C. via Boiardo n.12 09147 Selargius (CA) chimbe@chimbe.it www.chimbe.it ROC n.26278

e personaggio, infondendo in quell’individuo lo spirito del racconto che l’aveva coinvolta. - Sa cosa credo? - dice lei. - Cosa? - Credo che lei abbia perso la scommessa. L’uomo ride. - E io sono contento d’averla persa. - Mi spiego. Non so se ciò che ho letto della sua famiglia sia vero, e forse non ha nemmeno importanza. Però quel racconto ci ha reso meno estranei. L’ho sentita più vicina come essere umano, con le sue passioni, i suoi dubbi, i suoi errori. Non era più un concetto astratto come un’azienda, ma un uomo concreto. Con la pubblicità classica non succede, perché il lettore sa che qualcuno sta tentando di convincerlo di qualcosa e solleva uno scudo. L’uomo riflette. - La ringrazio. Davvero. L’esperimento di stasera è andato oltre le mie aspettative. Lei mi ha aiutato a capire più a fondo. - Cos’altro ha notato? - insiste Elena. - Ho notato che lei ha l’abitudine di inumidirsi il polpastrello per voltare pagina. Questa rivista invece l’ha sfogliata con le dita asciutte. - E cosa significa? - Ha letto l’editoriale? - No, veramente l’ho saltato. - Lo legga. La donna apre di nuovo la rivista e comincia a leggere. “Elena monta sul secondo vagone e percorre il corridoio in cerca d’un sedile vuoto. Scruta i volti dei passeggeri per capire dove non sedersi: in fondo, tre posti liberi su quattro, e un signore dall’aria rassicurante…”

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tipografia: Grafica del Parteolla Z.I. Bardella 09041 Dolianova (CA) grafpart@tiscali.it _____________ il primo numero di Chimbe nasce grazie a: Daniele Mocci - Andrea Pau Giuseppe Pili - Claudia Pirina Alessandro Riggio - Daniele Tomasi hanno collaborato: Eliana Carrus - Giorgio Concu Bruno Olivieri - Demetrio Venturini impaginato con: Adobe inDesign font per la testata della rivista e i testi delle storie: Candara _____________ per raccontare la tua impresa: racconti@chimbe.it per la distribuzione: distribuzione@chimbe.it _____________ Chìmbe è un marchio registrato. © Tutti i diritti sono riservati. Questa pubblicazione è protetta da copyright © Ogni riproduzione è assolutamente vietata. Le storie sono opere di finzione e non possono in nessun modo essere considerate come articoli giornalistici. Per esigenze narrative i racconti di Chìmbe mescolano realtà e fantasia in proporzioni variabili, per cui i personaggi rappresentati non sono identificabili con i loro ispiratori o sovrapponibili a loro. Ciò che appare all’interno della rivista è il frutto della trasfigurazione artistica degli autori. Il responsabile del trattamento dei dati personali, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. g) del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 è Chìmbe di M.C. via Boiardo n.12 09047 Selargius (CA) chimbe@chimbe.it - www.chimbe.it


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Può andare, signor Stardust. Disse il professor Verne al ragazzo che continuava a guardarlo con occhi persi. Quel giovane era stato uno dei migliori allievi del corso di laurea in Ispirazioni geniali e comparate, a cui solo i più dotati venivano ammessi. Il professore si alzò dalla poltrona e lo punzecchiò divertito. Allora che aspetta? Il suo tunnel per la Terra non resterà aperto in eterno. E stia tranquillo, non si ricorderà niente di tutto questo. Rinascerà… letteralmente!

Stardust si levò dalla sedia cinque minuti dopo, quando ormai era rimasto solo nella grande Aula delle Discussioni. Prese il fascicolo della sua tesi, se lo mise sottobraccio e affrontò l’uscita. Fu sommerso da una pioggia di complimenti, baci, abbracci, urla e stelle filanti. I suoi amici lo trascinarono fuori dalla facoltà e lo portarono alla festa. Si divertirono tutti, quella sera, tranne lui. All’improvviso non era più così sicuro di voler prendere il tunnel. I Viaggi Straordinari del suo professore, quelli che lo avevano reso una


Lee vie di

Strogoff di Daniele Mocci

leggenda, ora non gli sembravano più così affascinanti. Erano solo libri sui quali un uomo molto dotato nella scrittura aveva imbastito delle storie di fantasia. La realtà era ben diversa. D’accordo, a Verne era andata bene. Si era perfino guadagnato il diritto di usare per sempre il suo nome perituro. Ma moltissimi altri avevano fallito, nonostante la brillantezza delle loro menti e voti di laurea più alti del suo. Fu con questo spirito che Stardust salutò tutti e si tuffò nel tunnel al termine della festa, come

previsto dal Protocollo. Un bagliore lo sorprese come a volte capita all’uscita di una galleria non illuminata. Ci mise qualche secondo a capire che era già mattina. Dai, alzati. Tra un’ora hai il colloquio. E speriamo che sia la volta buona. Dalla stanza accanto arrivò il pianto del bambino che reclamava la pappa. Sua moglie andò a prendere il piccolo, lui pensò a scaldare il latte. Poi si infilò sotto la doccia e l’acqua calda sulla pelle spazzò via le piccole incertezze


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della notte. Aveva fatto bene a lasciare il Porto del Lavoro Sicuro per dirigersi in mare aperto e dedicarsi alla sua impresa. Uscì di casa con le idee chiare. Se anche stavolta il colloquio non fosse andato a buon fine, avrebbe continuato a svolgere la libera professione da solo, con il nome che si era scelto. Strogoff. Durante il tragitto a piedi ripensò all’idea giovanile di fare lo scrittore e al bisogno, mai sopito, di suonare la chitarra. Ma non ebbe il tempo di rifletterci a fondo. Luigi? Claudia era in anticipo. Lo aspettava all’ingresso del parco di Monte Claro, l’ufficio all’aperto in cui lui aveva incontrato gli altri candidati. I colloqui di lavoro sono una brutta bestia. Un’altalena di tensioni, punti di vista, aspettative ed esigenze che quasi mai combaciano tra le parti. Luigi li aveva sperimentati da entrambi i fronti e poche volte ne aveva tratto soddisfazione. Quella mattina, Claudia lo spiazzò. Lei conosceva molto bene l’enorme differenza che c’è tra un consulente di web marketing, un web master e un web designer. E, soprattutto, aveva capito che quella era una scommessa da fare insieme. A un certo punto, si lasciò perfino prendere la mano. Noi non facciamo siti internet o pagine facebook. Noi siamo partner delle aziende. Lavoriamo insieme a loro e le portiamo a ottenere risultati concreti. Più vendite. Più fatturato. Numeri, insomma. Per farlo ci serviamo di siti internet, e-commerce, social network e di altri strumenti di web marketing. Ma noi siamo consulenti. Esseri umani. Per un attimo Luigi ebbe l’idea che fosse stata lei a fargli il colloquio e a sceglierlo. Da quel momento Strogoff non fu più il vestito di un giovane consulente di web marketing, ma il nome di un’impresa. La sua. A proposito, perché Strogoff? La domanda di Claudia gli scatenò un vortice di

pensieri troppo veloci. C’era di mezzo la vecchia idea di fare lo scrittore e la lettura di Michele Strogoff. Quel cognome russo dal suono così robusto gli era rimasto impresso come un monito. Scolpito nel cervello. Avrebbe fatto lo stesso effetto ai suoi clienti. Mentre indugiava su questi particolari, gli venne in mente il profondo spirito di abnegazione al dovere del protagonista. Un carattere che Luigi si era cucito addosso già da quando era studente e che avrebbe portato sempre con sé. Forse era quella la risposta. O forse no. Perché, a dirla tutta, si dimenticò che l’autore di quel libro era un certo Jules Verne. Una dimenticanza da manuale, o meglio, da Protocollo. Strogoff partì come il treno della Transiberiana in pieno inverno. Non c’era neve, ghiaccio e nessun altro ostacolo che potesse fermarlo. Luigi capì subito che quell’abnegazione al dovere era anche nel DNA di Claudia. In breve tempo, quella ragazza divenne il braccio destro che lui aveva tanto cercato nei colloqui di Monte Claro. Percorsero ventimila leghe sotto i mari della rete. Entrarono nelle aziende, le conobbero e si fecero conoscere, senza risparmiare una sola delle risorse in loro possesso. Prima fra tutte, la consulenza come strumento di comprensione e di interpretazione delle imprese e, di conseguenza, come motore di soluzioni di marketing online. Non vendevano consulenze in cattività, ma andavano fino al centro della Terra con le loro gambe, se era necessario. L’importante era centrare l’obiettivo, anche a costo di rimetterci denari. Questo senso di responsabilità era rivolto sia all’esterno che all’interno. Strogoff, infatti, seppe porsi da subito nell’ottica di chi ha competenze da offrire ma anche da acquisire. Competenze sempre più avanzate e specifiche. Competenze vere. Di quelle che possono cambiare in meglio le sorti di un’impresa.


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Con l’arrivo di quattro nuovi compagni di viaggio, l’equipaggio guadagnò forza e personalità. Ma non bastava. C’era qualcosa che Luigi sentiva di dover ancora acquisire, prima di poter chiedere ai suoi compagni di seguirlo in imprese ancora più audaci. Lo spunto gli venne da una cena al ristorante La Rete. Gabriella e Assunta gli parlarono della loro attività di consulenza aziendale direzionale con cui accompagnavano le imprese nel percorso di crescita attraverso le idee, l’organizzazione e l’assunzione di responsabilità. Ancora una volta la parola magica era “consulenza”. E di altissimo livello. Luigi scoprì che una parte troppo importante di sé continuava a percepirsi come libero professionista, avventuriero solitario con il suo bel costume di scena. Era il momento di smettere quei panni e di indossare l’abito dell’imprenditore. Perché quello era diventato. Certe cose non basta saperle. Bisogna anche applicarle. Ancora una volta la formidabile abnegazione del suo personaggio (o era il nome della sua impresa?) la spuntarono e lo portarono a guardare oltre la sua statua. E fu a quel punto che tutti lo percepirono per quello che era, un opinion leader nel campo del marketing online. Tra le altre cose, vide una chitarra che lo aspettava. Pagine bianche da riempire. E viaggi. Viaggi straordinari. Gli eroi sono tali solo quando le loro storie vengono raccontate. Durante le battaglie o nel mezzo delle loro avventure sono uomini. Ciò che li differenzia dagli altri è una visione. O più di una. Luigi la sua visione ce l’ha e ha capito che può realizzarla. Mi pare che il signor Stardust sia sulla buona strada. Borbottò il professor Verne con gli occhi sul libro dalle pagine fatte d’acqua. Da lì poteva vedere ciò che succedeva oltre il tunnel.

Il Rettore lo ascoltò perplesso. Da quanto tempo i tuoi corsi non producono uno scrittore, Jules? Il professore non distolse lo sguardo dal libro. Il mio compito non è di tirar su anime letterate, signor Rettore. Ma di creare spiriti intraprendenti, capaci di Viaggi Straordinari. Dopo aver accennato un impercettibile sorriso, chiuse il tomo e lo ripose nell’immenso scaffale. E poi, non è ancora detta l’ultima parola.

______________ una produzione Strogoff strogoff.it © Chìmbe - riproduzione riservata


F

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Gusto

pardula di Claudia Pirina

Si dice che il modo di mangiare dica molto sul modo con cui si fa sesso. Se mangi in fretta, te la sbrighi subito, se mangi piano, adori i preliminari... e così via. Sciocchezze tipiche da riviste in aeroporto, di quelle che compri quando arrivi due ora prima dell’imbarco. Come me, oggi. Secondo questa sessuologa dovrei essere una donna “tipologia aria”: “Eclettica e incostante. A tavola ama sperimentare e creare gusti e accostamenti arditi. A letto è come una farfalla impazzita che ama volare di fiore in fiore”. Mentre ragiono su quanto ci sia di vero in quello che ho appena letto, un suono fuori luogo e fuori tempo attira la mia attenzione: la trombetta di un gelataio. Sono nella sala d’attesa di un aeroporto internazionale e davvero quella che sento è la trombetta di un gelataio? È una novità troppo allettante, per non desiderare subito una coppetta. “Che gusti hai?” “Che gusti vuoi?” mi sorride la ragazza che vende il gelato. Indossa un grembiule blu, legato stretto in vita, su un completo bianco, un cappellino che copre dei

capelli disordinati e corti e un sorriso accattivante. Sposto lo sguardo sul fianco del carrello, dove due F si incrociano all’interno di un cerchio dorato. Sopra c’è una sola vaschetta. Le ripeto la domanda, perché non sono sicura di aver capito. O meglio, penso che mi stia prendendo in giro. “Che gusti vuoi?” Il suo sorriso si fa più pronunciato e le arriva agli occhi. Decido di stare al gioco. “Menta e cioccolato fondente.” Mi guarda quasi delusa, prende una coppetta vuota, solleva il coperchio argentato della vaschetta e mi versa una palla di gelato al cioccolato. Sto per ripeterle che volevo menta e cioccolato, ma i suoi occhi mi chiedono di assaggiarlo. Socchiudo le labbra e prima ancora di assaggiare la fragranza con la lingua, la respiro. La menta raggiunge il naso mentre il cioccolato accarezza la lingua e i due gusti si fondono in un abbraccio dentro la mia gola. Si avviluppano, mi stuzzicano e mi accendono. La freschezza va verso la schiena e piano piano scende lungo la spina dorsale, mentre il calore del cioccolato passa dal collo e scivola verso la pancia. Inutile dire dove si incontrano. Quando torno in aeroporto non c’è più


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nessuno, solo lei. “Che gusti vuoi?” “Io, non lo so...” le rispondo, perplessa. Alza il sopracciglio sinistro. Sta per suonare nuovamente la trombetta e qualcosa mi fa capire che se lo farà, tutte le persone ricompariranno. Non so dove siamo, ma so che voglio restarci. Ho bisogno di capire cosa è successo. Le afferro la mano e le impedisco di abbandonarmi in balìa del resto del mondo. “Spiegami chi sei.” “Che gusti vuoi?” Non riesco a capire perché questo debba essere l’unico modo per comunicare, ma mi arrendo di nuovo. Continuo a stare al gioco e chiedo gusto latte. Forse, partendo dalla base, riuscirò a capire qualcosa. Lei mi guarda, anche questa volta sembra delusa. Poi apre la vaschetta, tira fuori una pallina di gelato al latte, la ricopre di granella di zucchero e me la porge sorridendo. Uso sempre lo stesso cucchiaino e questa volta noto che anche sul suo manico c’è l’immagine delle due F intrecciate. Ho il latte in bocca prima ancora di aprire le labbra. Le ghiandole salivari fanno il loro lavoro solo sentendone l’odore e quando finalmente incontrano il gelato esplodono. La cosa strana accade nel momento in cui comincio a masticare una ad una le palline di zucchero. Ciascuna di esse mi proietta dentro un’immagine differente. La piantina di un bar disegnata da un ragazzino, mentre il padre crea gelati di cui, non so come, sento il sapore. Pomodoro, gelsomino, ortica. Quando

mastico la seconda, vedo il ragazzino cresciuto che gestisce il bar e continua a guardare i contenitori del gelato vuoti. Poi lo vedo mentre studia per diventare maestro gelataio. Poi sento sapori nuovi, pecorino con miele e pere, poi olio, finocchi e arance. Quel ragazzo si è spinto dove nessun altro si era spinto prima. Provo sensazioni che non avevo mai sentito. Per me è troppo. Apro gli occhi. Lei non c’è più e una voce metallica mi chiede di avvicinarmi all’imbarco. Torno al mio bagaglio a mano. Mi avvio verso le scale mobili, buttando la rivista nel primo cestino. Altro che “tipologia aria”. Fortunatamente ho il posto a fianco al finestrino. Mentre mi siedo, sento che la mia lingua sta ancora giocando con una pallina di zucchero. Sto per sistemare il giubbotto e lo zainetto sul sedile accanto, quando un uomo reclama il suo posto. Gli lancio un’occhiata mentre riprendo le mie cose e la mia attenzione viene catturata dai gemelli che porta sui polsini. Hanno due F intrecciate tra di loro. Apro la bocca per bombardarlo di domande, quando lui mi dice “Gusto pardula, vero?” Sgrano gli occhi: “Scusi?” “Le piace il gusto pardula, ma ancora non lo sa, perché non l’ha mai assaggiato.” Vorrei fargli miliardi di domande, ma mi ritrovo a rispondere alla sua. “Ho già mangiato delle pardule.” “Sì, è vero, ma mai come gelato. Siamo abituati a vedere le cose solo come ce le hanno presentate, senza pensare che le possiamo avere sotto altre forme, o senza pensare che certe cose le possiamo avere, non sono proibite.”


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Lo guardo in silenzio, è lui l’uomo che faceva i gelati, il bambino che sognava con la piantina del bar. “Un barman può diventare un maestro gelataio, giusto?” gli chiedo. “Esatto, vedo che ha incontrato la ragazza del carrello.” Arrossisco, ripensando a quell’incontro. “Perché mi dice queste cose?” “Perché ognuno di noi dovrebbe sapere quale gusto vuole. Il gelato non è soltanto dolce.” Non so cosa dire e non capisco se il mal di pancia è per il decollo o per la tensione provocata da quel discorso. Chiudo gli occhi per un momento e mi addormento, o forse perdo i sensi. Ancora una volta sento il suono fuori luogo della trombetta del carrello. L’uomo è sparito e lei, la ragazza del gelato, è di nuovo davanti a me. “Che gusti vuoi?” La tensione dalla pancia si irradia verso le braccia e le gambe: no, non era il decollo. Sorrido dal nervoso. Lei alza ancora il sopracciglio. Le chiedo “Pardula”. Lei mi guarda, questa volta non leggo delusione nei suoi occhi. Con una mano apre la vaschetta argentata, con l’altra prende una coppetta, vi lascia scivolare una crema di gelato e me la porge insieme al cucchiaino. Poi si siede accanto a me. Ho talmente tanta fretta di lasciarmi andare a questo nuovo sapore che lo afferro con la lingua prima ancora di avvertirne l’odore. Sento il salato ai lati e l’agro sul fondo, lo scontro dei due gusti è così forte che le labbra si bagnano di saliva. Le affondo nel gelato, l’odore e il sapore del salato si incontrano e spingono

verso la nuca, portandomi a piegare la testa all’indietro. L’agro accelera verso il basso e mi contrae prima gli addominali e poi le natiche. Deglutisco, respiro e sento i muscoli rilasciare tutta la tensione. Quando riapro gli occhi, lei ha le labbra sporche di gelato e mi sta guardando: “È il mio gusto preferito.”

______________ una produzione Fabrizio Fenu Bar Centrale - Marrubiu (OR) © Chìmbe - riproduzione riservata



Il balcone

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panoramico di Daniele Mocci

Gentile signor Cuda, nel vedere il mio nome sul retro della busta, si sarà chiesto chi sia questo Mario Piras che le scrive. Un nome, peraltro, fin troppo comune qui in Sardegna. Se non dovesse avere memoria di me (e la capirei benissimo) le ricordo che io sono il medico a cui lei, quattro anni fa, ha venduto quella casa di Monte Urpinu con la facciata in pietra e il balcone panoramico. Ma non dovrei dire “venduto”. Già, perché quella casa non era nel suo portafoglio e lei, dopo le richieste di mia moglie, si è davvero fatto in quattro per cercarla. Non si è fermato finché non l’ha “trovata”. Un’operazione per niente facile che, ricordo molto bene, si concretizzò solo grazie al lavoro eccellente di tutto il suo staff. All’epoca ero appena rientrato in Sardegna da una vita trascorsa nell’esercito, in quello che molti isolani continuano a chiamare “il continente”. Una vita di grandi soddisfazioni professionali e umane che mi ha permesso di andare in pensione a sessantacinque anni. Ancora in tempo per un investimento immobiliare nella città in cui ero nato e che dovetti abbandonare giovanissimo per seguire la carriera. Mi prenderà per un vecchio nostalgico, signor Cuda, ma io ricordo sempre


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con grande piacere i nostri discorsi su questi argomenti quando la conobbi nel suo ufficio in via Sonnino. Ricordo molto bene i suoi occhi mentre lei mi parlava dei suoi inizi nei paracadutisti, compromessi da un banale infortunio alla caviglia nel corso del suo primo e unico lancio. Da una parte lessi il dispiacere per un’esperienza a cui lei teneva moltissimo ma che, purtroppo, si era interrotta sul nascere. Dall’altra vidi tutta la sua soddisfazione quando mi parlò del suo percorso successivo nell’esercito, e delle profonde amicizie che quei due anni le avevano lasciato. Io di anni sotto le armi ne ho fatti quarantuno e, le assicuro, so cosa significa.

istituto per bambini provenienti da famiglie svantaggiate. Purtroppo, tra le grandi soddisfazioni che la vita ci ha riservato, non c’è stata quella di avere figli. Per questo Marisa ha sempre colto ogni occasione per aiutare i bambini. Negli anni, quel libretto finì sul fondo della scatola e Marisa se ne dimenticò.

Ora lei si chiederà il perché di queste parole.

Quando l’altra sera lo ha ripescato, il suo sguardo si è illuminato all’improvviso. Era convinta che il ragazzo delle favole fosse proprio lei, caro signor Cuda! Io non ci ho creduto neppure per un attimo. Il mondo è troppo grande per coincidenze come questa. Quanti ragazzi, del resto, fanno i lavori più disparati per mantenersi agli studi o per conquistare l’indipendenza?

Parole scritte, oltretutto, su un antiquato foglio di carta, in un tempo in cui le persone preferiscono scambiarsi veloci monosillabi elettronici.

Ma la mia signora ha insistito. Secondo lei, il venditore di favole porta a porta aveva i suoi stessi occhi, signor Cuda. La sua stessa voce.

Bene, qualche sera fa Marisa, mia moglie, ha aperto un vecchio scatolone pieno di scartoffie e chincaglierie. Sa come si dice… i traslochi non finiscono mai! E quello scatolone, l’ultimo rimasto ancora sigillato dopo il nostro trasferimento a Cagliari, ne era la lampante dimostrazione.

Quel giovanotto, notando la sciarpa del Cagliari Calcio attorno al collo di Marisa, si era intrattenuto per qualche minuto a parlare di pallone. Aveva raccontato a mia moglie della sua grande passione per il calcio e di come, giovanissimo, avesse sfiorato la serie C2 nella sua Calabria. Poi, a diciotto anni, con la partenza in Toscana per il servizio militare nei parà, fu costretto a lasciare lo sport che amava.

Tra quegli oggetti e quelle carte è venuto a galla un libretto. “Il soldatino di piombo”, un classico delle favole. Marisa l’aveva acquistato a Roma nel 1999 o nel 2000 da un ragazzo dall’accento calabrese che li vendeva porta a porta. Il giovanotto l’aveva convinta dicendole che una parte di quelle diecimila lire sarebbe andata in beneficenza a un

Per cercare di ammorbidire il mio scetticismo, Marisa ha riesumato un certo discorso sul calcio che lei ci fece nel suo ufficio durante uno dei nostri colloqui per l’acquisto della casa.


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Niente da fare, non potevo crederci. Ma, allo stesso tempo, non volevo deludere mia moglie. E così ho pensato di fare una telefonata a un mio caro amico di Roma. Quello stesso dirigente della Toscano Immobiliare che quattro anni fa mi aveva indirizzato da lei, signor Cuda, per cercare casa a Cagliari.

La chiamo nei prossimi giorni per accordarci sulla nostra cena. Sarà un grande piacere trascorrere qualche ora insieme a voi nel balcone panoramico che Marisa, in questi quattro anni, non ha smesso un solo giorno di ammirare.

Per me, quella telefonata avrebbe dovuto risolversi con un semplice saluto a un vecchio amico. Non potevo credere che un venditore di favole porta a porta si fosse trasformato, nel giro di pochi anni, nel responsabile d’area per tutta la Sardegna di uno dei più solidi gruppi immobiliari italiani. Beh, mi sbagliavo. Il mio amico, che tra l’altro la conosce bene, signor Cuda, ha confermato per filo e per segno l’intuizione di mia moglie. E ora eccomi qui a scrivere queste righe con il solo motivo di comunicarle quanto sia stato bello per me, un medico militare in pensione, ritrovarmi in mezzo alla storia della sua vita. Una vita fatta di sogni, peregrinazioni, difficoltà e successi. Una vita come quella di molte altre persone, certo. Ma per questo straordinaria. Conto di averla presto a cena con sua moglie nella nostra casa di Monte Urpinu. E, quando verrà, si senta libero di portare la sua gattina. Ricordo ancora il tono della sua voce quando mi raccontò di averla tratta in salvo dal motore di un vecchio Fiorino. Era una cucciola impaurita e lei la battezzò Fiorina. Bene, non mi dilungherò oltre.

______________ una produzione Giovanni Cuda ca.centro@gruppotoscano.it © Chìmbe - riproduzione riservata



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Quattro occhi vedono

meglio di due di Andrea Pau

Chiamatemi Ismaele. Come quello lì, di quel libro famoso. Dopotutto, anch’io sono andato per mare, come lui. Che c’è? Perché mi guardate così? Un pescatore non può conoscere un libro famoso? Siete degli snob, parola mia. Io libri ne leggo. Pochi oh, perché leggere mi dà fatica: ormai ho gli occhi più deboli di braccia e gambe. E poi, quando arrivo alle sette di sera sono stanco morto, che l’indomani mi sveglio ancora alle quattro. Pescatore, sono. Anzi, ero: ogni giorno, per quasi cinquant’anni, sono uscito in mare. Pioggia o sole era uguale, quando era giornata mi scorticavano la pelle allo stesso modo. Però a casa c’erano sempre due cose: un libro e una carezza. La carezza me la dava Lia, che poi era mia moglie. Lia da giovane aveva lo stesso profumo del vento la mattina presto, e io forse mi ero innamorato di lei perché ero innamorato del vento. Come il vento, Lia se n’è andata martedì, un mese fa. No, non piangete, non è che se n’è andata nell’alto dei cieli… magari! Cudda tzonca mi ha lasciato. A settant’anni. Mi lasci così, a settant’anni?, le ho detto. Mica posso tornare indietro e lasciarti a trenta, mi ha risposto mentre sbatteva la porta. Forse dovevo immaginarmi qualcosa del genere, dato che negli ultimi due decenni abbiamo cominciato a litigare sempre più spesso, anche per fesserie. A volte non ci parlavamo per settimane, per mesi. Sì, in effetti avrei dovuto immaginarmi qualcosa. Da quel martedì mi ritrovo da solo. In pensione, senza niente da fare, senza voglia di fare niente. L’unica abitudine che ho tenuto è stata quella di passeggiare, la mattina presto, fino al mercato di San Benedetto. Salutare gli amici, farmi un caffè solitario e poi tornare a casa. Come stamattina.


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Oh, Ismaele!, urla una voce che conosco, mentre passeggio davanti al mercato. È la voce di un ragazzo. Sapete la tiritera banale dei vecchi che odiano i giovani, che li criticano e li giudicano? Beh, per quanto mi riguarda è verissima: li odio tutti, soprattutto quelle cardanche dei miei nipoti. Però ogni regola ha un’eccezione. Sarà che Antioco ha un nome da anziano, ma mi è proprio simpatico. Indossa un paio di occhialoni grossi come boccali di birra, ha la maglietta e le mani sporche, tipiche di chi maneggia cassette di pesce per otto ore al giorno. E un sorrisone grosso come metà sole. Ismaele, mi dice, io qua sto per finire. Ti va di accompagnarmi a fare una commissione? Prima di rispondere guardo le mie gambe. Quelle si piegano, sembrano chiedermi pietà. Non è lontano, vero?, chiedo. Lui scuote la testa, dice che è proprio qui vicino, poi entra nell’enorme struttura in mattoni rossi del mercato. Quando ne esce ha le mani pulite, indossa una camicia blu e sorride. Mi fa cenno di seguirlo e mentre ci avviamo per via Cocco Ortu continua a parlare. Potevo anche andarci da solo, confessa, ma volevo qualcuno che stesse con me, durante. Durante cosa?, gli chiedo, curioso come una gazza. Ma lui non risponde, perché siamo arrivati alla sua meta. È un negozio dalle vetrine imponenti, che espone decine di occhiali. Non dovrai comprarti gli occhiali da sole?, balbetto allarmato. L’ultima volta che ho accompagnato Lia a fare compere era il 1987, non ho intenzione di modificare le mie abitudini. Lui sorride, entra nel negozio. Ci accoglie un uomo, sorriso franco e occhi chiari. Mi pare di averlo già visto, e può essere: in settant’anni quanta gente incontra un uomo? Si lancia sul mio amico, gli cinge le spalle con un braccio e gli chiede se è andato alla partita del Cagliari, domenica. Figuriamoci, certo che c’è

andato, quel benedetto ragazzo ama più lo stadio del suo lavoro. Anty Anty Anty, era ora che ti decidessi a venire!, gli dice, contento. Poi si gira verso di me. Chi è il tuo amico? Mi porge la mano, mi dice il suo nome: Corrado. Ha una stretta ferma, che ricambio con energia. Ci accompagna in una stanzina sul retro, ci fa accomodare su due sgabelli, davanti a uno specchio. Torna pochi secondi dopo, tiene in mano una confezione di lenti a contatto. Si accosta ad Antioco, un Antioco emozionato, poi si siede a fianco a lui. Gli porge le lenti e comincia a parlare con un tono che metterebbe a suo agio un condannato a morte. Ogni tanto fa una battuta, ma ridono solo loro due perché io non le capisco. Gli mima i gesti che servono per indossare le lenti a contatto. Solleva la palpebra superiore con l’indice della mano sinistra, poi spalanca quella inferiore con il medio della destra e mima la posa della lentina con l’indice. Et voilà, dice. Ora va’ a lavarti le mani. Con cura, mi raccomando. Appena Antioco ha finito di lavarsi, Corrado gli sfila i pesanti occhiali e li posa davanti allo specchio. Antioco si siede e comincia a imitare i movimenti dell’uomo. Apri l’occhio, avvicina il dito; apri l’occhio, avvicina il dito; apri l’occhio, avvicina il dito. Dapprima senza lente a contatto, poi con. Apri l’occhio, avvicina il dito; apri l’occhio, avvicina il dito; apri l’occhio, avvicina il dito. Ma appena l’indice si avvicina alla superficie della cornea, Antioco serra l’occhio come se il dito fosse ancora lurido di squame di sparedda bella frisca. Per tre quarti d’ora. Il ragazzo è innervosito. Figuratevi io. Corrado, nonostante nel frattempo abbia servito o parlato o salutato una trentina di clienti, trova il tempo per dargli coraggio. Dai, Anty, la prima volta è difficile ed emozionante come fare l’amore, poi però è tutta discesa.


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Io continuo a osservarlo. Ora sono certo di averlo già visto. Ha fatto la comparsa nel video di quelli che cantano Cagliarifornia, mi spiega Antioco, mentre combatte la sua personale lotta contro la soluzione salina. Ah, faccio io, lasciando cadere il discorso. Figurati se so chi cavolo sono ’sti tizi, penso, a me piace Mario Fabiani. Grande Mario. Sto canticchiando “Isola Isola” quando Antioco finalmente ci riesce: la prima lente è sull’occhio! Gli dò una pacca sulla spalla, Corrado fa lo stesso, poi mi alzo per sgranchirmi un po’ le gambe. Il negozio ha le pareti dipinte di colori scuri, sembrano quelli di un’industria in disuso. Un’industria ordinata, luminosa e piena di gente. Sono attratto da un espositore a muro, da un paio di occhiali dalle lenti verdi. Mi sembrano quelli che portava l’attore famoso, quello bassottino, nel film dove pilota un aereo da guerra. Mi guardo attorno, li prendo dall’espositore, me li poggio sul naso. Quel film l’ho visto in tv una decina di volte. A Lia piaceva tanto, almeno le prime tre volte. Poi le altre diceva di cambiare canale, di mettere al programma della gente scomparsa. Non la accontentavo mai, pitica sa noia. Sì!!!, esplode in quel momento Antioco. Rimetto a posto gli occhiali e mi precipito sul retro. Il ragazzo è in piedi, esulta. È riuscito a indossare entrambe le lenti. Ci vedo pulito, dice. A trecentosessantagradi, nitido nitido… in HD! Fiamma! Abbraccia Corrado, poi abbraccia anche me. Esce fuori dal negozio. Osserva quel tratto di strada tra il mercato e il teatro lirico, duecento metri che percorre ogni giorno da anni, e dice di vederlo per la prima volta. Ride come un bambino, quasi piange, ride ancora. Io sono un po’ emozionato. Mi giro verso Corrado. Sorride come sempre ma è silenzioso. Strano. Gli occhi azzurri sono più limpidi del solito, mentre Antioco legge tutti i testi dei cartelloni pubblicitari di via Bacaredda. In

quell’istante ho una rivelazione. Ecco dove ho già visto Corrado: sulla pubblicità! Lui è quello che fa la pubblicità in prima persona! Intanto che ci penso, Antioco è rientrato nel negozio, per togliersi le lenti. Stavolta è molto più veloce, ci mette meno di dieci minuti. Io nel frattempo continuo a osservare quegli occhiali, a pensare al film. Sento il bisogno… il bisogno di velocità!, diceva quel pilota. Antioco saluta Corrado, mi raggiunge, insieme usciamo sul marciapiede. Il ragazzo sta per salutarmi, ma io lo fermo. Aspetta un attimo, dico. Entro di nuovo dentro, prendo quegli occhiali da aviatore affascinante e li pago. Prima di tornare sulla strada, li indosso. Appena mi vede Antioco ride forte, io neanche lo sento. Le mie orecchie sono coccolate da una melodia dolcissima, un pianoforte dai battiti angelici. Con i miei occhiali nuovi, mi pare di vedere il mondo per la prima volta. Mi sembra che guardarlo senza Lia non sia necessariamente un male. E poi c’è quella musica che continua a fare da sottofondo. È una musica celestiale, un’armonia dolcissima, la colonna sonora della mia rinascita. Lo so che non c’è nulla di sovrannaturale e che quel piano è suonato dagli allievi del Conservatorio qua davanti, ma se dico ‘musica celestiale’, voi non dovete rompermi le scatole. Ho appena settant’anni e il mondo da oggi ha il colore dei miei occhiali nuovi.

______________ una produzione Corrado Marini Ottica 4 Eyes - Cagliari © Chìmbe - riproduzione riservata


Giorgio è al volante della sua auto nuova fiammante. Deciso ed elegante, si muove nel traffico della città con una guida sportiva e un’espressione compiaciuta. Accanto a lui, una splendida bionda si gode la brezza che le scompiglia i capelli. Il sole fra i palazzi si riflette sul cofano. - Questo è ciò che avevo sempre sognato, - pensa lui. - Un’auto brillante, confortevole, tecnologicamente avanzata. Adesso l’uomo sta affrontando una strada di campagna piena di salite e discese, curve a gomito. Sempre più sicuro, sempre più veloce. - La libertà di trovare nuovi spazi. E la felicità di percorrerli con un semplice gesto. Ora sta guidando in condizioni meteorologiche avverse. Pioggia e vento non lo rallentano. Sembra non li avverta nemmeno. - Non è una macchina: è l’estensione di me stesso. Ecco che l’auto scivola rapida fino al mare, dove affronta la sabbia in grande scioltezza. La bionda gli

sorride, seducente. - Questa è la vita che avevo sempre sognato. Questa è... - Papà? Una voce di bambina, e il sogno s’interrompe. Giorgio apre gli occhi e riprende contatto con la realtà: smette di fare brum brum con le labbra e di girare il volante. Si rende conto d’essere seduto nell’auto dei suoi sogni, ma ferma in concessionaria. Nel sedile accanto c’è la figlia. - Papà! La bambina lo fissa con un’espressione interrogativa. Quindi solleva un dito, indicando qualcosa dietro di lui. Giorgio si volta lentamente e vede la titolare della concessionaria, Clementina, accanto al finestrino di guida. La donna sorride. Giorgio abbassa il vetro e sorride a sua volta, ma di imbarazzo. - Bentornato. Ha fatto buon viaggio? Giorgio accenna con la testa un timido “sì grazie”.


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Un’ U n’auto da

sogno

di Giuseppe Pili

Nero. Sullo schermo appare la scritta: CAMPAGNA AF MOTORS - UN’AUTO DA SOGNO. 1 DI 4: L’ACCOGLIENZA. Roberto preme ESC e il DVD fuoriesce dal computer portatile. Dietro la scrivania, di fronte allo schermo, c’è Clementina, la proprietaria della concessionaria. Nell’angolo in fondo, Morena, la moglie di Roberto. L’uomo si rivolge a Clementina. - Questa è la prima sequenza. I nostri copy hanno pensato a una comunicazione sofisticata ma allo stesso tempo familiare, con un’ironia di tipo britannico, che ci distinguesse dalla solita pubblicità. Lui è un personaggio rassicurante, un padre di famiglia con tanti desideri inespressi. Un tipo piuttosto comune. Che gliene pare? - L’attrice che mi impersona secondo lei mi somiglia? - domanda Clementina. - C’è un certo margine di trasfigurazione, - risponde Roberto, un po’ impacciato.

- Scherzavo. Comunque non c’è male, mi sembra che funzioni. - Poi, voltandosi verso Morena, - lei che ne pensa, signora? - La bionda in auto è banale. - Mia moglie è ironica, - si affretta a dire Roberto, imbarazzato. - Ci vuole scusare un momento? - Prego. Roberto si allontana dalla scrivania e raggiunge la moglie. - Cara, - bisbiglia, - ti dispiacerebbe aspettarmi fuori? Sto trattando con un cliente importante. Questa campagna ci è costata mesi di lavoro. Se lo perdiamo, in agenzia mi fanno a fette. Non so se rendo l’idea. - Ti metto a disagio? Guarda che è stata la signora a invitarmi dentro. - Se fossi rimasta in auto non saprebbe nemmeno che esisti. Cerca di capire: andare dal cliente assieme alla moglie è come andare a un appuntamento accompagnati dalla mamma. - Pfff.


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Clementina richiama l’attenzione. - Guardi che per me la signora può restare. Non c’è problema. Anzi: il parere di una terza persona è importante. Specie di una donna. - Certamente, - risponde Roberto sorridendo. E alla moglie - Mi raccomando. Roberto torna alla scrivania e bisbiglia a Clementina: - Sa, ogni volta che vado da un cliente di sesso femminile insiste per accompagnarmi. - Nessun problema. - La ringrazio. È pronta per il secondo blocco? - Prontissima. Roberto inserisce il secondo DVD nel portatile e avvia. CAMPAGNA AF MOTORS - UN’AUTO DA SOGNO. 2 DI 4: LA TRATTATIVA. Giorgio e la figlia Martina si trovano in concessionaria, nell’ufficio di Clementina. - Allora, com’è andato il test drive? - domanda Clementina. - Come le sembra l’auto? - È splendida, - replica Giorgio. - Me ne sono innamorato. Ma c’è un problema. - Siamo qui per risolvere qualsiasi problema. Dica pure. - Questo è irrisolvibile. È mia moglie. - Perché mai? - Lei non la conosce. - A noi piacciono le sfide impossibili, - risponde sorridendo Clementina. - Lasci fare a me. La donna compone un numero al cellulare. - Paola? Abbiamo un Codice Rosa. - Per un attimo torna a rivolgersi al cliente: - Può far venire sua moglie per le cinque? - Posso provare. - Paola: ore diciassette zero zero.

Stacco. Paola, la venditrice, apre la porta d’ingresso della concessionaria con un sorriso smagliante. Luisa, la moglie di Giorgio, la guarda in cagnesco e varca la soglia con passo deciso. - Dov’è quest’auto? Dietro di lei appare Giorgio. Con un’espressione desolata tenta di scusarsi con Paola, che comprende al volo il personaggio. Stacco. In un angolo del salone, fra decine di auto luccicanti, Paola e Luisa sono sedute a un tavolino. Sono intente a prendere un tè, in un’atmosfera assolutamente distesa. Paola offre dei cioccolatini alla sua ospite. - Cara, - dice ridendo Luisa, - lei vuol farmi ingrassare! Come le dicevo, non immagina l’incubo di andare a prendere la bambina dalla lezione di danza. Impossibile trovare un parcheggio! Sono costretta a infilarmi in posti assurdi, e una volta su tre mi capita di toccare il paraurti! - Non me ne parli. Io devo accompagnare le mie figlie e la capisco perfettamente. Ma lei è fortunata: l’auto che ha scelto suo marito ha il parcheggio assistito. - Davvero? E dice che...? - Assolutamente. Non solo: ha il rilevatore acustico di ostacoli e il sistema anti-collisione. Per non parlare dell’arredamento interno in pelle lavabile. E può scegliere i colori che le piacciono di più. Giorgio e Clementina si uniscono alle due. Luisa si volta, abbandona la smorfia di cortesia e apostrofa il marito col ringhio abituale. - Allora? Hai firmato il contratto? La signora Paola ha un appuntamento con un cliente fra venti minuti! Giorgio gongola. Roberto preme ESC e il portatile espelle il DVD. - In questo blocco compare un tono da farsa e introduciamo la moglie del cliente. Il personaggio garantisce lo svolgimento comico dell’azione,


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perché entrano in gioco due caratteri: la moglie dominante e il marito sottomesso. In questo modo lo spettatore afferra al volo la situazione e partecipa emotivamente alle vicende del nostro protagonista. Qui la concessionaria appare come una struttura in grado di far fronte a qualsiasi esigenza del cliente, anche la più stramba, come evidenziato dall’ironia del “Codice Rosa”. - Una trovata molto simpatica, - dice Clementina. Morena, dall’angolo in fondo, fa risuonare la sua voce. - I soliti luoghi comuni sulle donne. - Prego? - domanda Clementina, voltandosi. Roberto lancia alla moglie un’occhiata disperata e ammonitrice. - No, dicevo, - continua Morena, ignorando il marito, - non le sembrano i soliti luoghi comuni sulle donne? Lei è così dominante e poi si fa incantare da un tè e quattro chiacchiere tra femmine. È uno stereotipo. Si vede che è stato scritto da un uomo. - Cara, - ribatte Roberto a denti stretti - la comicità si basa sugli stereotipi. Senza stereotipi non c’è commedia. Lei che ne pensa, Clementina? - Ha ragione. Però il punto di vista della signora mi sembra interessante. Potrebbe rispecchiare la reazione di una fetta delle nostre potenziali clienti. - Assolutamente, - dice Roberto con fare un po’ ruffiano. - Che ne dice se passiamo al blocco numero tre? - Volentieri. CAMPAGNA AF MOTORS - UN’AUTO DA SOGNO. 3 DI 4: LA CONSEGNA. Giorgio è a casa, di fronte allo specchio. Ha dovuto infilarsi un elegantissimo abito scuro nel quale si sente goffo, e sta tentando di annodarsi la cravatta. Prova un paio di volte, senza successo, finché alle sue spalle compare la moglie Luisa, che con un gesto rapidissimo afferra i due capi.

- Dai qui. - Poi, gridando verso la porta: - Martina, sei pronta? La voce della bambina risuona dalla stanza a fianco. - Mamma, non trovo le calze con le farfalle! - Se vengo e le trovo nel cassetto, dove devono stare, stavolta passi dei guai! Con quattro mosse precise Luisa sistema il nodo. - E tu pettinati! Stacco. I tre sono davanti all’ingresso della concessionaria, in attesa dell’apertura. Claudio, un impiegato ancora assonnato, apre la porta e vede di fronte a sé la famiglia, trepidante per l’emozione e in tenuta da matrimonio. Luisa con la mano sistema i capelli scomposti di Giorgio e tira verso il basso i lembi di una gonna un po’ troppo corta. Stacco. Luisa e Martina hanno raggiunto l’auto nuova nel parcheggio della concessionaria, e costringono Clementina, Paola e gli impiegati a entrare nell’inquadratura dei selfie, affrontando complicate pose per riprendere l’auto nuova sullo sfondo. - Sorridete! - esclama Luisa. - Questa è per Facebook! Stacco. Nel parcheggio, Giorgio sta liberando la vecchia auto dagli effetti personali per trasferirli nella nuova, e li infila in una busta da supermercato. Dal cruscotto estrae la spazzola per capelli di Luisa e la lascia sul sedile, così come un pupazzo di peluche di Martina. Trova i suoi occhiali da sole, li prova, specchiandosi nel retrovisore, quindi li infila in busta. Appena terminato, Giorgio si riunisce al gruppo dei selfie. Clementina gli porge le chiavi della nuova auto. - Ora è tutta sua. Giorgio sta per afferrarle, ma Luisa con un gesto rapidissimo le intercetta e se ne impossessa, lasciandolo con un’espressione ebete. - Che te ne fai tu del parcheggio assistito?


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Stacco. Luisa e Martina lasciano la concessionaria a bordo dell’auto nuova, salutando dal finestrino Clementina, Paola e gli impiegati della concessionaria, che ricambiano affettuosamente. Giorgio, in piedi accanto alla vecchia auto, assiste alla partenza stringendo la busta con le sue cose e accennando uno sconsolato ciao con la mano. Fine del blocco. Invece di rivolgersi a Clementina, Roberto parla direttamente con la moglie. - Qui mi sembra che l’uomo ne esca come uno stupido. O no? Morena fa spallucce. - Dica pure, signora - insiste Clementina. - Mi sembra che qui la prospettiva si sia riequilibrata, non le pare? - Mah. A me sembra che la moglie ne esca sempre più arrogante, e il maschio si accaparri la simpatia del pubblico. È uno stratagemma un po’ meschino. Io lo trovo profondamente sessista. Roberto sobbalza. - Sessista? Ma quando mai? Quindi la matrona delle commedie di Plauto è sessista? - Il 99% delle cose fatte dai maschi è sessista. - Ma che dici? - Ma sì. L’unica donna che i maschi rispettano è la madre. E le donne che non li confortano come farebbe lei diventano minacciose. Questa roba mi sembra una proiezione infantile bella e buona, con l’auto al posto del fallo. - Ma la sente? - dice Roberto a Clementina. - La prego, dica qualcosa a nome delle donne. - Non ha tutti i torti, signora, - replica Clementina a Morena, - però io faccio questo mestiere da anni, e le assicuro che di scene del genere ne vedo ogni giorno. - Senti? - rincara Roberto. - Questa è realtà. - La signora ti dà ragione perché è gentile e ha compassione di te.

Clementina allenta la tensione. - Vi prego, non vorrei essere causa di litigio tra moglie e marito. C’è un quarto capitolo, se non sbaglio. CAMPAGNA AF MOTORS - UN’AUTO DA SOGNO. 4 DI 4: L’ASSISTENZA. Centro città. Luisa e Martina sono a bordo dell’auto nuova, ferme sul ciglio della strada. Luisa compone nervosamente un numero al cellulare. - E adesso, mamma? - Adesso chiamiamo tuo padre. Alla risposta, Giorgio viene investito da una scarica di parole. - Non ci posso credere! La tua auto si è bloccata in mezzo al traffico! Lo sapevo che finiva così! Stupida io che mi sono fatta incantare! Giorgio inspira a fondo per ritrovare la calma zen e poi dice - Ferma dove sei, sto arrivando. Stacco. Giorgio raggiunge la famiglia a bordo della vecchia auto. Luisa è al telefono con un’amica, esce dall’abitacolo e continua a chiacchierare. Giorgio si accomoda al volante. - Papà, non parte più! - esclama Martina. - Adesso diamo un’occhiata, tesoro. L’uomo tenta di accendere, ma il motore non si avvia. Poi guarda il quadro e si accorge che la spia del carburante è a zero. Picchia la testa sul volante due volte. - Che c’è, papà? Giorgio guarda la figlia e mette l’indice sul naso, implorando complicità. - Shhh. Quindi esce, apre il cofano e fa finta di armeggiare col motore. Richiude, si avvicina alla moglie, sfregando le mani in un fazzoletto. Luisa interrompe la conversazione, giusto un secondo. - L’hai riparata? - Temo che dovrò chiamare l’officina. - Che aspetti?


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Stacco. Nell’officina della concessionaria, Bruno, responsabile del service, accende il quadro ed esce immediatamente dall’auto, imbarazzato. - Potrei parlarle un attimo in privato? - dice a Giorgio. - Stavo per chiederglielo io. I due si appartano nell’ufficio, e Giorgio lo anticipa. - Non dica niente, la prego. Da quando l’abbiamo acquistata mia moglie se ne è impadronita, e questa è l’unica possibilità che ho di tornare a guidarla. Mi dia una mano. - Lasci fare a me. I due rientrano in sala, dove Luisa e Martina attendono il verdetto. - Signora, - esordisce il meccanico con aria grave, - purtroppo dovremo sottoporre l’auto a dei controlli frequenti per capire la natura del problema. Così com’è ora, potrebbe lasciarla in mezzo alla strada quando meno se lo aspetta, per cui le consiglio di lasciarla guidare a suo marito. - E a Giorgio: - Può chiamarci in qualsiasi momento. Le manderemo il carro attrezzi ovunque si trovi. Siamo a sua disposizione. Luisa riflette. Guarda l’auto nuova, poi volta lo sguardo verso la vecchia parcheggiata fuori. Allunga una mano verso il marito e apre il palmo. Giorgio, trattenendo a stento un sorriso, consegna a Luisa le sue vecchie chiavi. Fine. Prima di dire qualsiasi cosa, Roberto e Clementina si voltano all’unisono verso Morena, che guarda il marito con aria truce. - Cioè, fammi capire, - dice Morena, - la moglie rimane a corto di benzina e pensa che l’auto sia guasta? Ma stai scherzando? No, dico. Che trovata geniale. Non solo le donne appaiono arroganti, ma anche idiote. Come si chiama il tizio che ha scritto questa roba? Un giorno passo in agenzia e me lo presenti, voglio conoscerlo. Clementina esplode in una risata. Roberto invece

non ride affatto. - Credo che tu non abbia afferrato il punto, risponde allentando il nodo della cravatta che da qualche minuto lo soffoca. - Questa commedia non descrive tutte le donne, descrive una donna. Se l’idiota fosse stato l’uomo nessuno avrebbe avuto da ridire! È il colmo dell’ipocrisia! - Quella sarebbe stata la realtà! - ribatte ghignando Morena. - Signori! - interviene Clementina. - Calmatevi. Sorpresi dalla reazione, i due tacciono all’istante. - Roberto, mi sembra evidente che la campagna ha dei punti critici che vanno risolti, ma questo non mi sembra il momento adatto per parlarne, per cui direi di rimandare la discussione. Che ne dice? Roberto guarda la moglie con astio, poi Clementina. - Ha ragione, ci scusi. - Perfetto. Adesso dobbiamo concentrarci urgentemente su un altro problema. - Un altro problema? - domanda lui, perplesso. - Sì. Tutto dipende dalle sue risposte. - Mi dica. - Siete venuti con la stessa auto? - Certo. - Quanto dista casa sua? - È dall’altra parte della città. - E le chiavi chi le ha? - Le ho io. - Benissimo. Clementina afferra la cornetta del telefono e spinge un tasto. - Paola? Abbiamo un Codice Viola. La signora rischia di tornare a casa a piedi. ______________ una produzione AF Motors afauto.it © Chìmbe - riproduzione riservata



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Il trentottesimo

seme

di Giuseppe Pili e Claudia Pirina

Villaggio Mussolinia, 10 ottobre 1932 Zii carissimi, rispondo subito alla vostra raccomandata, nel medesimo vi diamo notizie della nostra ottima salute. Vi notifico che dal 1° settembre o affittato un appezzamento di Terra adibito ad uso orto qui proprio nel paese Mussolinia. La Terra è di 75.000 metri quadri e l’affitto è di 5.500 lire. Per ora certo è magra tirare avanti e impiantarsi completamente, ma non si more neanche - sempre meglio di colà quando è grassa. E piano piano sistemaremo tutto, prendaremo le vacche che qui sono indispensabili perché fieno ne abbiamo una quantità che si vuole, basta seminare e raccogliere e si falcia dei ladini 10 volte di più all’anno, l’acqua per righare la abbiamo sempre a disposizione e è compresa sull’affitto. Come cosa magnifica 7 camere e una cucina, acqua da bevere una belezza, una bella piazza in cemento per comodo di asciugare quello che occorre. Nell’orto

ora abbiamo raccolto circa 6 quintali di grano turco, poi abbiamo altre tante patate, poi abbiamo il mese venturo 4 o 5 quintali di barbagigi, pepperoni, melanzane una buona quantità. O scritto al Fratello Antonio proprio questi giorni che porta quanto prima tutti. E voi? Volete venire? Se le mie forze finanziare fossero state più solide vi avrei chiamato fino dal primo giorno ma ora la nostra cassa è in grande debolezza, ma speriamo che graduatamente aumenti. Come sopra vi dissi se venite mettetevi dacordo telegraficamente con Antonio, portatevi il fucile che qui avrete da distrarvi a volontà. In atesa vostre nuove vi saluto caramente tutti zii cugini nipoti. Portate una scatola di visco per capar usei. Vi attendiamo ciao. Peterle Armelindo


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2075. La flora del pianeta si è estinta a causa di un’alterazione climatica. Il progetto GreenSafe della Confederazione ha salvato milioni di esemplari grazie al lavoro dei più importanti vivaisti mondiali, in attesa che il clima - in un futuro più o meno lontano - torni ad ospitare la vita vegetale. Tuttavia un incendio alla Fondazione ha distrutto tutti i semi e le piante di fragola scampati alla catastrofe. Tutte tranne una. 10 Ottobre Vittoria sfiora il touchscreen e modifica la deflezione dei pannelli solari sul tetto della serra-laboratorio. Infila i guanti in lattice e si dirige al vegafreeze, estrae un contenitore grande quanto un pugno, lo sfrega per scongelarlo e apre. Dentro, una fragola. La prende con delicatezza e la pone alla luce, come la perla di un’ostrica. La sistema sotto una lente d’ingrandimento e col laser incide la superficie in spicchi verticali. Quindi, una ad una, asporta delicatamente le striscioline di buccia. Le depone su un foglio di carta assorbente, una accanto all’altra, senza sovrapporle. Quindi pone il foglio sotto il sunverger, così che i raggi naturali del sole facciano essiccare le strisce in modo lento e naturale. Carissima Marlene, Sì, se un giorno dovessi mai averti, ti chiamerò così. E oggi che sto iniziando questo esperimento così importante... ho davvero bisogno di credere che un giorno arriverai.

Aumann, il direttore del GreenSafe, mi guarda come se non meritassi questo posto, come se fossi qui solo per il mio cognome. Se la situazione non fosse così grave per l’umanità, direi che è felice che quelle piantine siano andate a fuoco. “Così vediamo se è veramente una Peterle!” pare abbia detto ai colleghi. La verità è che me lo chiedo anche io. Ho solo un tentativo per dimostrarlo. La fragola che si è salvata è la diretta discendente di quelle piantate da Armelindo, il tuo bis bis bis bis nonno. Le aveva trovate vicino al canale, poco dopo il suo arrivo ad Arborea. Era tornato a casa e le aveva coltivate sotto l’albero del pero. Un mio errore, e le fragole dei Peterle rischiano di scomparire per sempre dall’intero universo. 11 Ottobre Le striscioline di buccia si sono sciolte in un liquido rosso. Vittoria conta i semi rimasti sulla superficie: trentotto. Modella dei cilindri di terra, avvolti nella sottile tela in Fitoreum™, come prescritto dal Protocollo GreenSafe. Sistema ogni cilindro in un vasetto. Immerge il dito per tre centimetri al centro di ogni vasetto, depone il seme sul fondo e lo ricopre di terra. Quindi appende i vasetti al telaio d’acciaio della serra. Carissima Marlene, Da piccola mi chiedevo “se la natura è perfetta, perché ha bisogno di noi per dare


i suoi frutti? Non potrebbe semplicemente regalarci una fragola senza aspettarsi che noi facciamo qualcosa in cambio? Perché interferire con lei? Perché non lasciare che segua il corso normale delle cose?” Quando ho fatto questa domanda a mio nonno, lui mi ha sorriso e per l’ennesima volta ha citato Zia Vittoria. Per lui è come se fosse l’almanacco del sapere: contiene tutte le risposte. “Zia ti risponderebbe ‘Allora perché non lasci che tuo figlio segua il corso normale della vita, e se vede il fuoco e vuole toccarlo non glielo lasci toccare?’ Il bello di una pianta è che può esserti madre e figlia allo stesso tempo, può nutrirti ed essere nutrita.” Ora più che mai capisco cosa significa essere in attesa. 21 Ottobre Vittoria passa i vasetti sul livescanner, uno ad uno, e ne radiografa l’interno in tempo reale. I semi sono rimasti delle dimensioni iniziali. Controlla e ricontrolla i calcoli, senza esito, per ore. A notte fonda spegne il computer, sconfortata. Carissima Marlene, Dieci giorni e ancora nessun segno di vita. Tremo all’idea di fallire. Come potrei sentirmi se tu non potessi mai assaggiare una fragola? Ho chiesto ad Aumann, in via del tutto informale, di derogare al Protocollo GreenSafe modificando i parametri di coltura, ma non ne vuole sapere, da buon soldatino. Mi rendo conto di non essere stata molto persuasiva, nemmeno io ero

sicura di ciò che avrei voluto proporgli. La verità è che la notte scorsa ho fatto uno strano sogno. Succede sempre quando sono preoccupata. Mi trovavo nel nostro vecchio vivaio di Arborea, nella mia serra preferita, quella della germinazione. A un tratto ho visto nonno, e mi ha chiesto se fossi felice. Io gli ho risposto che avrei voluto essere altrove, e lui ha replicato “Il tuo ambiente di lavoro assorbe tutte le tue energie, non ti permette di crescere”. Sento che ha un significato. Credo che il mio inconscio mi stia suggerendo qualcosa. Domani frugherò tra le carte di famiglia alla ricerca di qualche indizio. 24 Ottobre Vittoria è nel suo laboratorio, di fronte allo schermo del computer. Legge l’ultima e-mail ricevuta. Dal direttore [Aumann, Markus] alla ricercatrice [Peterle, Vittoria]. Gentile Signorina Peterle, in merito alla Sua formale richiesta di deroga al Protocollo GreenSafe, e in particolare all’articolo 453 che riporta la lista delle Consociazioni Sinergiche consentite dalla Fondazione, mi spiace comunicarle che il Consiglio Direttivo ha respinto la Sua proposta di piantare i semi di fragola in un ecosistema differente. Il rischio è quello che la presenza di una pianta con caratteristiche organolettiche particolari possa alterare l’equilibrio faticosamente raggiunto, provocando


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un effetto collaterale che metterebbe in pericolo le piante consociate di una specifica serra, con conseguenze devastanti, come Lei può ben immaginare. Le ricordiamo, qualora l’avesse dimenticato, che le istruzioni contenute nel Protocollo GreenSafe sono la summa della scienza e della tecnologia umana dai primordi sino ai giorni nostri, e riportano tutto ciò che c’è da sapere sui metodi di coltivazione. In attesa di notizie sull’esito del Suo procedimento protocollare, Le auguriamo buon lavoro. Dr. Markus Aumann. Con stizza, Vittoria clicca sul tasto Elimina e cestina il messaggio. 25 Ottobre Notte fonda. Vittoria è ancora nella sua serra. Prende il vasetto numero trentotto, estrae il cilindro di terra che contiene il seme e rimuove il telo in Fitoreum™ che lo avvolgeva. Quindi dalla tasca del suo marsupio estrae un foglio di carta biodegradabile, di quelli che il nonno usava per realizzare il PaperPot, e riavvolge la terra. Reinserisce il cilindro nel vasetto e lo appende. Carissima Marlene, Aver ritrovato il PaperPot mi ha ridato speranza. Sono certa che in qualche modo il telo in Fitoreum stia assorbendo tutte le sostanze utili al seme.

Rileggendo la lettera di Armelindo mi sono resa conto di quanto la mia famiglia abbia osato in tutto ciò che ha fatto, in tutto ciò che ha costruito. Con tenacia è riuscita a sviluppare gli antichi metodi di coltivazione, vincendo la diffidenza iniziale e la tradizione di secoli, sperimentando e innovando. Sono una Peterle, ed esserlo non significa solo responsabilità ma anche e soprattutto coraggio. Osare e puntare là dove nessuno ha mai osato prima. Una famiglia di pionieri: questo è ciò che siamo. 2 Novembre Una settimana dopo, ancora notte fonda. Vittoria sta osservando il vasetto numero trentotto. Un piccolo germoglio di due millimetri è venuto alla luce. Vittoria lo guarda con sconfinato amore. Piange in silenzio. 14 Novembre Vittoria è nel suo laboratorio, di fronte allo schermo del computer. Ha appena ricevuto una e-mail. Dal direttore [Aumann, Markus] alla ricercatrice [Peterle, Vittoria]. Gentile Signorina Peterle, il Consiglio Direttivo Le porge le più fervide congratulazioni per i risultati da Lei ottenuti nel delicato processo di riproduzione delle fragole. Questo ci lascia intuire un brillante futuro nella Sua carriera. L’intuizione che le molecole del telo in


Fitoreum™ - prescritto dal Protocollo GreenSafe - potessero inavvertitamente assorbire alcune importanti sostanze nutritive della fragola, si è dimostrata vincente. Non solo: il suo studio è in grado di spiegare i diversi fallimenti occorsi in altre colture, per i quali la Fondazione non era ancora riuscita a trovare le cause. Come sempre, la scienza si dimostra l’unico metodo che l’umanità ha per progredire nel suo cammino, e lei ha compiuto un notevole passo in avanti. Rinnovando le nostre congratulazioni, le auguriamo buon lavoro. Dr. Markus Aumann.

lavorare un campo e veder nascere tutti i giorni qualcosa dalle tue mani. Vittoria percorre un bellissimo viale alberato e inspira a pieni polmoni l’ossigeno artificiale. Guarda in alto. Nel cielo nero, aldilà dell’immensa struttura circolare d’acciaio e vetro che ruota con infinita lentezza, il pianeta Terra occupa un quarto della volta celeste e riflette la luce del sole con una leggera sfumatura azzurra. Dalla stazione spaziale orbitante su cui gli umani si sono trasferiti per sopravvivere, osserva con nostalgia quel pianeta deserto. Ora ne è certa: un giorno le fragole torneranno a fiorire nei suoi verdi campi.

Vittoria sorride. Ripone gli strumenti nel cassetto della scrivania e spegne la lampada. Un’ultima occhiata alla sua fragola, che cresce vigorosa. Esce dalla serra e chiude la porta ermetica sfiorando il pannello. Mia Cara Carissima Marlene, La gioia che provo ora non avrà eguali sino a quando non arriverai tu. Prometto di creare per te il mondo più nuovo e antico che sia mai esistito. Prometto di insegnarti a fare gli innesti e a chiuderli con la rafia, come faceva Zia Vittoria. Prometto di farti sporcare tutti i giorni le scarpe di terra. Prometto di mostrarti ogni fiore che sboccia. Perché niente ti regalerà gioia come

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il film

BVolution

di Daniele Mocci

QUARANTOTTESIMO GIORNO DI RIPRESE. C’è una certa agitazione nella troupe. Ieri la produzione ha fatto un raid sul set ed è stato un bagno di sangue. Regista e sceneggiatori sono in disaccordo su alcuni snodi della trama, e fin qui tutto regolare. Quello che non combacia più nelle loro visioni sono gli intenti di fondo. E poi abbiamo accumulato un ritardo pazzesco sulla tabella di marcia. Doveva essere un film sulle contraddizioni della politica e sui sistemi di finanziamento ai partiti e alle imprese. Non per condannare o assolvere qualcuno, ma per mostrare come vanno le cose. L’idea di spostare il discorso in una città periferica come Cagliari avrebbe evitato di pestare calli troppo rischiosi. C’era quella storia della prima metà degli anni Duemila, andata a finire con una marea di indagati e con pochissimi condannati. Ma soprattutto c’era una “dark lady” perfetta. Il fatto è che Hans Bahler, il regista, non è tipo che si accontenta degli atti ufficiali e delle testimonianze di seconda mano. Mentre giravamo le scene degli arresti e del putiferio mediatico di quei giorni, ha bloccato le riprese. Io voglio saperne di più. Prendetevi una settimana di pausa. Ed è sparito. Sette giorni dopo è tornato con il suo bottino. Trenta ore di file audio MP3. Trenta ore che Hans ha ascoltato e riascoltato, facendoci accumulare il

ritardo pazzesco grazie al quale la produzione, con buone probabilità, abbandonerà il progetto e ci rispedirà a casa. SCENA 67. Inverno 2006-2007. Esterno notte. Statale 133, nel tratto tra Luogosanto e Tempio Pausania. Freddo, vento e raffiche di grandine. Assunta e Gabriella stanno rientrando da un appuntamento di lavoro a La Maddalena. Hanno fatto tardi. Con la loro utilitaria male in arnese procedono a velocità sostenuta, nel tentativo di rientrare a Cagliari prima dell’alba. Una macchina davanti a loro va troppo lenta. Assunta, alla guida, lampeggia con gli abbaglianti perché l’autista le lasci strada. Alla fine riesce a passare ma, nello spazio di pochi chilometri, la macchina le raggiunge, le sorpassa e le ferma. Polizia. C’è qualche problema, gentili signore? No, perché… abbiamo visto che ci facevate dei segnali con gli abbaglianti. Gelo totale, e non solo per le condizioni atmosferiche. Per stavolta passi, ma guidate con prudenza. È una serataccia. Le due si scambiano il volante e ripartono. Altri dieci chilometri e Gabriella evita per miracolo un cinghiale gigantesco che attraversa la strada all’improvviso. Nemmeno il tempo per un sospiro di sollievo, che centra in pieno il resto del branco. La macchina è fuori uso, alcuni cinghiali giacciono

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immobili sull’asfalto. Loro due sono vive per miracolo. I telefoni non captano nessun segnale. Il freddo morde con violenza. Sono le ventitré e trenta, e il centro abitato più vicino si trova su un altro pianeta. Dopo un quarto d’ora, arriva una macchina. La stessa di prima. Toglietemi una curiosità, gentili signore… chi di voi è Thelma e chi Louise? No, perché… mio nipote è un fanatico di quel film e mi piacerebbe portargli i vostri autografi. La radio della volante è la loro salvezza. Prima arriva il carro attrezzi e poi, a tarda notte, il figlio di Assunta, giunto da Cagliari per rimpatriare le due avventuriere. QUARANTANOVESIMO GIORNO DI RIPRESE. Hans non sente il sonno. Le riprese di ieri notte lo hanno eccitato al punto che non è neppure andato a letto. Ha discusso a lungo con il montatore e ora pensa di utilizzare quel materiale come scena iniziale del film. È convinto di aver trovato la chiave di volta. Racconterà la storia di due donne che sono entrate giovanissime nel mondo del lavoro dalla porta della old economy, in un sistema sociale e politico sempre più anacronistico e ingessato, per poi rinascere a nuova vita in un altro mondo. Alla produzione l’idea non piacerà per niente. Ma conosco Hans e so che andrà avanti fino in fondo. Prepariamoci a girare la mancata promozione di Assunta. Hans è un treno in corsa. Lei ha una posizione solida in un’agenzia governativa regionale e prospettive dirigenziali. Gabriella intanto è arrivata dietro le quinte della politica e si ritrova in mano il futuro di Assunta. Ma dal cilindro tira fuori un altro nome. Se potesse, Assunta la strangolerebbe con le sue mani. Il punto è che non si conoscono. Non si sono mai nemmeno viste in faccia. Gli sceneggiatori si incazzano e se ne vanno sbattendo la porta, in un tripudio di insulti e minacce. Hans nemmeno li sente e mi spedisce a studiare i documenti. Non ha ancora risolto un problema che già se ne mette un altro. Come hanno fatto quelle due a diventare amiche,

colleghe e socie dopo una storia del genere? La risposta è in quelle trenta ore di file audio, ma a lui non basta. Vuole trovare un modo più cinematografico. Un incidente d’auto in pieno centro. Dico io, poco prima di arrivare alla porta. Hans mi fulmina. Vai avanti. Una è sopra pensiero per via dei casini che le hanno stravolto la vita. L’altra sta rimuginando sull’idea di cambiarla proprio, la sua vita. E… CRASH. Niente di grave, ma il traffico va in tilt. E loro cosa fanno? Si guardano in faccia e scoppiano a ridere. Poi, in una cornice di macchine ferme, clacson che strillano e folla in delirio, se ne vanno insieme a prendere un caffè. Mi aspetto che mi lanci addosso il cavalletto che tiene tra le mani, e invece… Scrivila e mandamela via mail tra un’ora, così pensiamo alla location e chiediamo i permessi. Sono senza fiato. Non dovevo studiare i documenti? Sì, anche. Portami la relazione entro stasera. Mentre Hans esce con la troupe, io faccio correre le dita sulla tastiera del portatile. In un’ora viene fuori la scena che gli ho raccontato e uno script di massima sul resto della storia. Thelma e Louise lasciano le strade che le avevano condotte fino al CRASH e decidono di percorrerne una nuova, insieme. Ripartono alle dipendenze di un’azienda che offre consulenze avanzate agli imprenditori con lo scopo di innescare o risvegliare processi di crescita. Dalla presa di consapevolezza di se stessi e della propria azienda fino alla messa a fuoco degli obiettivi concreti che consentano di arrivare ai risultati. Le due donne sperimentano il percorso prima di tutto su se stesse e riscoprono la luce. Ed è quello che faremo noi con questo film. Mi dice Hans alle sette di sera, quando torna. Io sono distrutto, mentre lui è carico come una molla. Come se avesse appena fatto una dormita di diciotto ore. Un panino e proseguiamo. Hans vuole mantenere alto il ritmo e, per fortuna, le vicende reali ci danno una mano. Il primo periodo della loro nuova vita è un


susseguirsi di arrembaggi in giro per la Sardegna, con viaggi al limite dell’assurdo. Per due professioniste ultraquarantenni di quel calibro, cercare i clienti “porta a porta” o con “telefonate a freddo” non è una passeggiata. Ma Thelma e Louise sono fatte per le sfide e non hanno nessuna paura di affrontare le difficoltà. Nel frattempo, matura in loro un’evoluzione che le porterà a staccarsi per gradi dall’azienda per cui lavorano, fino alla creazione di un’impresa tutta loro, BVolution. È quasi mezzanotte. Ci fermiamo per un caffè. A me sta bene, Hans. Ma, a parte il fatto che non abbiamo ancora il finale, lo capisci che la produzione non accetterà mai questo cambiamento di prospettiva? Posso permettermi di parlargli in questi termini perché, anche se sono solo un giovane aiuto regista, lui si fida di me. Non me ne importa niente. Troveremo altri produttori più coraggiosi, ma faremo il film che vogliamo noi. La brutale telefonata che segue con la produzione, suggella l’inevitabile chiusura del progetto e la fine delle riprese. Da domani dovremo camminare con le nostre gambe. TRENTADUESIMO GIORNO DELLE NUOVE RIPRESE. Stiamo per terminare il film. Hans ha recuperato buona parte di ciò che aveva girato con i vecchi produttori. I nuovi sono diversi, ci lasciano lavorare. Non risolvono le cose al telefono o con agguati sul set. Vivono il clima della troupe, pranzano insieme a noi, condividono gli aspetti artistici e quelli tecnici. Parlano con gli attori, con gli elettricisti e con gli scenografi. Se siete qui è perché siete bravi. Ogni tanto vi dimenticate di esserlo e non riuscite più a vedere il vero obiettivo. Quello è il momento di cambiare punto di vista. Di riaccendere il vostro sogno. Se siete positivi, trasferirete positività a chi vi sta intorno. A chi lavora con voi, a chi vive con voi. Appena Hans sente queste parole si insospettisce. Assomigliano maledettamente alla filosofia di BVolution, che lui conosce bene dopo tutti quei mesi passati a scavare nelle vite di Assunta e

Gabriella. Non è che per caso voi siete loro partner e noi, senza saperlo, stiamo facendo un film su commissione? I produttori sorridono. Mi sembra che voi abbiate fatto il film che volevate fare, Hans. Lo stesso film che vi era costato il posto di lavoro. E comunque no, non siamo loro partner. LA SERA DELLA PRIMA. Per fortuna il bar è vicino all’ingresso della sala. In alcuni passaggi mi sono agitato e non riuscivo più a stare seduto accanto ad Hans. Il profumo del caffè mi aiuta a capire che in realtà abbiamo raccontato una storia ancora diversa da quella che Hans voleva girare quando è stato scaricato dalla vecchia produzione. Un film sul valore delle persone e delle loro idee. Sul senso di responsabilità e sulla consapevolezza delle proprie scelte. Sulla gente che sbaglia e che sa portarsi appresso il fardello dei suoi errori, in un processo di reincarnazione continua, ogni volta su un livello più alto. Ecco perché ha senso raccontare storie come questa. Ci siete andati giù pesante, eh? Mi dice la voce di Gabriella. E avete romanzato un bel po’. Le fa eco quella di Assunta. Mi volto di scatto e vengo investito dai sorrisi dei “loro” ragazzi. Quei professionisti che fanno parte della squadra di BVolution e che condividono giorno per giorno le soluzioni, le evoluzioni e le rivoluzioni di Thelma e Louise. Mi porto la tazzina alla bocca. Buono, questo caffè.

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sciamana

La

di Giuseppe Pili

Una giovane donna. Un passeggino. Una bimba di tre mesi. L’interno di un palazzo. Dei gradini alti e stretti. Il pianerottolo del primo piano. La donna perde la presa e il passeggino precipita per le scale. Un urlo. Una discesa interminabile, gradino dopo gradino. Il passeggino si schianta e si ribalta. La bimba vola sul pavimento, ma i panni la proteggono. La donna è impietrita, gli occhi sbarrati. La bimba solleva lo sguardo e vorrebbe gridare… «Non preoccuparti per me, mamma! Sto bene!» Ma non può. Le sue corde vocali non possono articolare alcun suono. Non ancora. Cinquant’anni dopo, quella bimba si sveglia di soprassalto. Ziza ha fatto ancora quel sogno, provando la stessa sensazione di impotenza e un’angoscia profonda. Sa che il sogno racchiude un significato, se solo riuscisse a comprendere quale. Solleva il capo dal banco di lavoro. Controlla il cellulare: nessuna chiamata. Di fronte a sé, gli schizzi per un nuovo abito e uno scialle da rifinire. È notte fonda. Si alza, percorre l’ampia sala tramezzata dove di giorno lavorano le sue sarte,

esce sul patio sfiorando i rami del grande limone ed entra in un cucinino appartato. Mette a bollire l’acqua del tè, sa che dovrà stare sveglia sino al mattino. Un lavoro importante per una cliente a cui tiene molto. L’appuntamento è alle otto, e Urra è puntualissima. Torna nel laboratorio, sorseggiando. Osserva la sala, vuota ma pulsante di vita. Macchine da cucire, rocchetti di fili colorati lungo le pareti, rotoli di stoffe, una marea di bottoni appuntati ovunque. È la sua tana, il bozzolo che ha intessuto col lavoro di una vita. Fa scorrere la porta che separa il laboratorio dal negozio. Osserva gli abiti esposti nello spazio a tre navate. Quanta distanza tra quella sala e il vicolo dove ospitava i suoi primi clienti. Era difficile prevedere che un giorno sarebbe arrivato tutto questo. Un locale prestigioso in centro, splendide vetrine illuminate, una targa di plexiglass col logo in caratteri dorati e un’enorme porta a vetri che si apre per clienti selezionati. Ma non eri tu quella che voleva cambiare il mondo con quel comunismo fatto a misura del tuo carattere indomabile? Che ne è rimasto della scrittrice inespressa, della psicanalista senza titoli, del medico


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mancato? Che ne è stato della ragazza fiera e indipendente che aveva una passione per gli esclusi e i diversi, che voleva cambiare il mondo? E adesso sei qui, a trattare con persone il cui peggior nemico è la noia, a fare un mestiere di cui non conoscevi nemmeno l’esistenza finché il destino non ti ha trascinato lontano dalla tua isola. Un teatro lirico, centinaia di costumi fuori misura da sistemare per l’indomani, la tua amica nel panico, tu che prendi ago e filo per la prima volta e - magia - il lavoro che viene terminato a regola d’arte. E la moglie dell’impresario che ti supplica di rimanere, di fare la sarta di scena a vita. Ma tu non avevi ancora scelto la strada da percorrere, la vita era così densa di possibilità, così ricca di incontri ancora da fare. La ringrazi e torni a casa. Non potevi sopravvivere lontana dal tuo mondo, sei una quercia le cui radici hanno bisogno di un suolo adatto per trarre la propria linfa. Sai che lontano da quella terra le tue foglie appassirebbero. L’isola ti regala forme e colori, la passione in te si fa espressione, s’incarna in abiti di rara bellezza. La natura e l‘arte ti ispirano, la tradizione rivive nel tuo presente. Non hai mai amato la parola stilista e hai sempre disprezzato la moda. Tu non volevi vestire la gente, volevi vestire le persone. La massa è un concetto da padroni: per te esistono solo i singoli e le loro unicità. Questa società che esalta l’individualismo a scapito dell’individualità ti ha sempre trovato contro, battagliera. Come la volta che hai risposto di no a un’importante casa di moda che voleva esportare le tue creazioni. «Io voglio sapere chi indossa un mio vestito.» Ziza torna al suo abito, che ha le linee e i colori dei ginepri delle dune. E poi le ore volano e dalla finestra filtra la luce del mattino. Spegne i neon e guarda il cellulare. Sta per chiamare la madre quando il citofono la scuote. Urra sta sbirciando all’interno, schermando la luce sul vetro con la mano. Non ha mai tardato in vita sua, e questa è una delle otto cose per cui Ziza le vuole così bene. La porta si apre e si richiude alle sue spalle. Per oggi

non si aprirà per nessun’altra. Baci e abbracci, un caffè condiviso. Ziza racconta all’amica quel sogno che la turba ancora, colorandolo di espressioni irripetibili. All’interno di un atelier il turpiloquio produce una strana eco, ma lei lo fa apposta, è la sua strategia. Urra ride di gusto. L’eleganza, la raffinatezza, sono solo apparenza: Ziza detesta l’affettazione, detesta l’estetica priva di contenuto, così quel linguaggio triviale le permette di riequilibrare. Questo dice alla persona che ha di fronte: bada che non sono chi tu pensi che io sia. Ricalibra il giudizio. Non sono l’idea che hai di me. Guardami negli occhi. Sono una persona vera. Smetti di giocare alla signora borghese e fai in modo d’esserlo anche tu, almeno con me. Questo approccio così crudo s’è rivelato straordinariamente efficace, e nel tempo l’atelier di Ziza è diventato un confessionale. Qui donne e uomini vengono a raccontarle i loro affanni, le loro sconfitte, i loro dolori. Piangono, a volte. E Ziza sa come restituire loro l’energia perduta. Ogni persona che la conosce possiede un vestito fatto da lei, e un secondo nome. L’amica che stamane condivide il suo caffè si chiama Simonetta, ma per Ziza è - e rimarrà sempre - Urra. A guardarla in modo oggettivo Urra è una donna brutta e sgraziata, ma gli occhi di Ziza vent’anni fa hanno visto ben altro, hanno percepito ciò che si cela dietro quelle forme asimmetriche. Mentre le appunta il nuovo abito sul corpo imprecando di star ferma - Ziza ripensa al giorno in cui Urra entrò timidamente nel tugurietto. Le era appena morto il marito e sembrava uno straccio usato. Era convinta che la sua vita fosse ormai priva di scopo. Urra da cugurra, l’insetto nero, perché i suoi abiti avevano un solo colore. Urra le aveva raccontato la sua storia senza la certezza d’essere compresa, in un gesto impulsivo e liberatorio. Non ne poteva più di tenersela dentro. Ziza aveva percepito la sua aura, debolissima.


Nonostante la ritrosia, l’aveva fatta spogliare di fronte allo specchio. Pian piano le aveva insegnato ad amare tutti i suoi difetti, uno ad uno. «Sono difetti solo se la gente si accorge che li nascondi.» I vestiti che Ziza le fa indossare sono pensati per lei, ancor prima che una delle sue sarte possa posarci un dito sopra. Perché Ziza non veste le persone: rivela chi sono, porta alla luce la loro identità. È una cosa che dice sempre, ne ha fatto un motto: i suoi abiti non servono a coprire il corpo. Sono vestiti per l’anima. Oggi Urra è un’altra donna. È tornata a ridere. Ha recuperato la sua voglia di vivere. Si veste di rosso, non teme più il giudizio della gente. È venuta a patti coi suoi difetti fisici, e Ziza sa che ha una coda di pretendenti lunga quanto via Farina. Così quella donna, un tempo ferita, oggi può permettersi di restituire un poco di ciò che ha ricevuto. «Perché non parli a tua madre di quel sogno?» Urra lo dice con leggerezza, piegando il capo mentre si ammira allo specchio, ma quella frase colpisce Ziza nel profondo. Si blocca, guarda il riflesso dell’amica con espressione ebete e una spilla da balia serrata tra le labbra. Arriva la sera e il momento di chiudere. Mentre ripone le sue cose, Ziza afferra il cellulare per infilarlo in borsa, poi ci ripensa. In realtà è tutto il giorno che quell’idea non le dà pace. Urra malefica. Compone il numero e attende. Forse non è ancora andata a dormire. Come stai? Hai già mangiato? Hai preso le pastiglie? E poi le racconta del sogno, nei minimi dettagli. All’altro capo, la donna non risponde subito. Quando lo fa, soppesa ogni sillaba. «Sapevo che un giorno me lo avresti domandato. Quello che hai sognato è successo davvero. Mi dispiace, non sono mai riuscita a perdonarmelo. Volevo seppellirlo, ma per me è stato impossibile dimenticare la tua espressione. Non avevi paura

per te stessa: eri spaventata per me. Non sei mai stata una bambina, Ziza. Ti ho partorito io, ma tu appartieni a qualcosa di più antico. Quando sei venuta alla luce eri già vecchia. Quando hai iniziato a parlare dicevi delle cose che io e tuo padre stentavamo a comprendere. È stato difficile gestirti, non eravamo adatti al nostro ruolo. Smettila di fingere d’essere una qualunque, perché non lo sei. Tu sei nata per aiutare gli altri, in un modo molto speciale. È una cosa che hai ereditato da tua nonna. Fanne buon uso.» Quella risposta non ti sorprende. Forse lo hai sempre saputo. Che ironia. In tutti questi anni hai pensato a rivelare l’anima degli altri, ma non hai mai riflettuto su chi - o cosa - realmente tu fossi. L’atelier non era lo scopo, era il mezzo. «Riposati adesso, mamma. Ci sentiamo domani.» Domani sarà un giorno assolutamente nuovo.

______________ una produzione Patrizia Camba lasartoriadicambapatrizia.it © Chìmbe - riproduzione riservata



Salto alto nel di Giuseppe Pili

Tutto è accaduto qualche mese fa. Sono al lavoro e ricevo una telefonata anonima. Una voce femminile mi chiede se sono il giornalista che dovrà intervistare il sindaco di Lei. Resto un attimo in silenzio. Non so di cosa stia parlando: non so niente di Lei e nemmeno di interviste. Forse è un’idea di Marco, il nostro editore. Domando l’identità del mio interlocutore, ma la donna non si qualifica e mi chiede l’indirizzo e-mail, dice di avere delle cose importanti da mostrarmi, che poi capirò. Esito, cerco di prendere tempo, ma non aggiunge altro. Acconsento, poi la comunicazione s’interrompe. Chiamo Marco. «Avevi intenzione di fare un pezzo su Lei e hai dato il mio nome a qualcuno?», «Lei chi?». «Lei il paese. Lei con la elle maiuscola». «Esiste un paese che si chiama Lei?». «Se non hai fatto tu il mio nome, allora chi?». Parlo dell’episodio ai Chimbiani e stabiliamo di prendere contatto col sindaco di Lei, per capire. Magari ne esce fuori qualcosa di utile per la rivista. Marco si presenta e sonda il terreno, ma Marcella Chirra non sa niente di telefonate anonime, e nessuno ci ha contattato per suo conto. È incuriosita però dal progetto della rivista, così fissiamo una data per l’incontro. Si potrebbe parlare di Lei mostrando le fasi della realizzazione del pane di San Marco, è un’idea per promuovere il territorio. Ne discutiamo tra noi: Lei è un piccolo paese nel cuore della Sardegna, abbastanza isolato per aver conservato tradizioni e sapori antichi, troveremo spunti affascinanti per un pezzo. Siamo soddisfatti, ma questo non risolve il mio piccolo mistero.


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Un mistero che s’infittisce appena ricevo l’email. In allegato, un documento. Leggo. È un lungo racconto, scritto con uno stile arcaico che ricorda le traduzioni italiane dei poemi omerici. Protagonista del racconto è un narratore, giunto al termine della vita, che racconta un episodio della propria giovinezza: parla di un’isola chiamata Iknos, di un villaggio chiamato Ella, di una Sorellanza guidata da una donna di nome Margea, di un dio protettore, Margoos, di una missione importante compiuta da tre uomini - tra cui egli stesso - che si recano a Ella da una città lontana per raccogliere una scintilla della fiamma di un dio. Quella fiamma è l’unica arma contro l’oscuro Signore del Nulla, il cui contagio ha reso le anime degli abitanti dell’isola aride e prive di compassione. Ne avevano predetto l’avvento, i veggenti, ma non v’era guerriero o eroe che potesse sfidarlo, poiché egli era nessuno e moltitudine a un tempo. Carne non era, ma spirito, e come un cuculo dimora nel nido di altri, poiché vuoto lo trova, così il Signore del Nulla possedeva le anime vacue. Costoro parevano umani, sì, ma soltanto nel corpo, svuotati d’amore e di affetti, e colmati, di contro, da vane pretese, disposti a predare la loro genìa, quasi che nati non fossero dal medesimo grembo. Molte domande senza risposta. Cosa connette il racconto al luogo in cui dovremo recarci? Qualcuno sta giocando con noi? In breve partiamo da Cagliari, facciamo tappa nel Medio Campidano per prelevare il fotografo e nel giro di un’ora raggiungiamo la catena del Marghine. Siamo ospiti nella casa dei genitori del sindaco. La madre di Marcella Chirra ci mostra le fasi preliminari della realizzazione del pane di San Marco, alla cui scultura collettiva assisteremo più tardi. Modella la pasta in un vaso e la trasferisce nell’impastatrice

meccanica. Questo normalissimo gesto provoca in noi un piccolo shock culturale. Siamo arrivati qui con l’idea di fare una gita fuori-storia, di immergerci in un’atmosfera primigenia e illustrare la nostra cartolina per turisti. Così l’utilizzo di uno strumento elettrico ci delude, quasi ci infastidisce, ci riporta al presente e alle sue opacità, rivelando ai locali il nostro ridicolo atteggiamento coloniale. Lei non cerca di ripudiare il presente, cerca di rielaborarlo a partire dai propri valori di riferimento. Che a volte coincidono con i valori dominanti, a volte no. Incassiamo la lezione e ci ripromettiamo, per il futuro, di essere meno naïf. Partiamo alla volta del monte per l’escursione in programma. Ci faranno da guida tre amiche di Marcella: Cristina, Anna e Angela. Ecco che il meccanismo analogico si attiva. Il manoscritto anonimo parlava di tre uomini accolti nel villaggio di Ella e condotti dalle donne della Sorellanza - quattro per la precisione - in un bosco sacro. Mi rendo conto: la fantasia di uno scrittore è rapida a connettere elementi che appartengono a mondi lontanissimi, ma non posso impedirlo. Tre uomini e quattro donne. La cosa mi affascina e mi turba allo stesso tempo. Appena fuori dal paese prendiamo un sentiero molto ripido e ci inoltriamo in una fitta foresta di lecci. A farci da guida è Cristina, che ci spiega come ogni fazzoletto di terra abbia guadagnato un nome. Corona Ruia, Sos Bidiles, Zuncos. Chiedo i significati dei più strani, ma alcuni sono andati perduti, nemmeno gli anziani li ricordano più. Il cancello grigio che abbiamo appena superato segnala l’inizio del demanio. Da lì in avanti, tutto ciò che ci circonda appartiene alla comunità. Attraversiamo un luogo chiamato S’Ingresu (l’inglese) da quando la terra fu donata al costruttore della ferrovia sarda Benjamin Piercy. Piercy è s’istranzu che ha fatto delle foreste sarde una montagna di traversine. Sbuchiamo quindi nella radura di un altipiano


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che la nostra guida associa a bellissimi ricordi d’infanzia. Circondati da rovi di more rosse e felci, ci assale l’odore del timo. Cristina ha compiuto studi umanistici, ma suo padre conosceva questi luoghi come il palmo della mano. È fiera delle sue origini, quando parla del suo mondo le brillano gli occhi. «Ecco, quella è la baracca di Ziu ***; non perché sia sua, ma perché era lui ad usarla». La condivisione dei beni, questa sorta di comunismo arcaico senza vincoli giuridici è un principio che ci affascina e ci fa sognare. I pastori occupavano questi rifugi giusto il tempo che serviva, poi si avvicendavano.

rinnovano il voto realizzando quel pane così unico. Torniamo in paese. Marcella ci introduce in una grande sala dove alcune donne attorno a un tavolo sono intente a modellare gli elementi decorativi de sa cogone - fiori, animali, ornamenti astratti - assemblando piccoli ritagli di pasta di semola. Ognuna modella secondo il suo stile, concorrendo con la propria individualità a un progetto comune. È la metafora di un’utopia comunitaria? Sentirsi allo stesso tempo individui e gruppo? Osservo il tavolo e conto le donne: sono tredici.

Sento parlare Marcella, Cristina, Anna e Angela e penso che il senso della comunità è un bene prezioso che abbiamo dolorosamente perduto. Almeno noi, rappresentanti di un’urbanità incolore, insapore e inodore. Per noi è difficile immaginare un intero paese che attende con trepidazione la festa di San Marco, quest’idolo amatissimo che suscita profonda venerazione. Per noi è difficile capire il motivo per cui una ragazza istruita come Cristina anticipi un esame universitario pur di non mancare a quel ballo collettivo che lei definisce “un’esperienza estatica”, quasi si trattasse di un rito dionisiaco di immensa potenza, capace di rigenerare il corpo, lo spirito, la natura circostante. Le nostre guide ce lo confermano: raccontano che il venticinque aprile nell’aria si avverte qualcosa; una strana frenesia assale i danzatori mentre compiono l’originalissima intrada; un sentimento impalpabile ma assolutamente vero e profondo si impossessa di loro.

Alla sacra fiamma, perché mai fosse spenta, tredici consorelle attendevano, e la nutrivano bruciando un pane che a labbra umane non era dato toccare. In un angolo, erano chine su una larga pietra, finemente levigata. Delicate mani, rapide ed use, modellavano la pasta tratta dalle dorate spighe che nascono e muoiono ad Ella, e ad Ella soltanto; e dalla pasta le dita traevano incantevoli figure: piccoli fiori, uccelli dalle lunghe code, agili cervi, affinché i dischi del pane fossero graditi al Dio leone. Devi sapere, curioso lettore, che noi tre fummo i soli stranieri ad assistere al nutrimento di un Dio, e privilegio delle nostre orecchie fu udire, sebbene senza comprenderli, i canti delle consorelle che tessevano le lodi del potente Margoos: ora io riporto a te, fedelmente, quanto mi fu dato d’assistere.

San Marco. Mi domando a quale figura arcaica possa corrispondere quella maschera cristiana raffigurata con un leone ai piedi. Impossibile trovarne traccia negli archivi parrocchiali dove il paganesimo giace sepolto da una coltre di silenzio. Sentendo le nostre guide, credo di poter dire che San Marco rappresenti - no, meglio: personifichi un sentimento. Il sentimento di un’intera comunità, un’energia collettiva coagulata in un simulacro. Ed è in onore di San Marco che le donne di Lei ogni anno

Il fotografo mi chiede qualcosa ma sono assente: entrare e uscire fuori dal tempo mi provoca uno straniamento. Poi la giornata volge al termine. Abbiamo raccolto il materiale iconografico e acquisito un bagaglio di sensazioni che non troveranno espressione in queste righe. Salutiamo il comitato delle donne, ancora alle prese con il pane. Prima di montare in auto spero sino all’ultimo che qualcuno mi fermi e si riveli come la donna del


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mistero, che risponda ai miei interrogativi. Non accade. Osservo però Marco stringere la mano di Marcella, e la mia mente perde nuovamente il senso dello spazio e del tempo. «Addio saggia Margea,» disse il prode Ancos, «con tristezza abbandoniamo la vostra dimora. Siamo giunti come stranieri, ma oggi io e i miei compagni abbiamo compreso chi siamo, donde veniamo, e, con l’aiuto degli Dei, dove siamo diretti. Io spero che le nostre strade s’incrocino ancora, al più presto, quando Iknos sarà governata da uomini liberi.» Durante il viaggio di ritorno ci scambiamo le impressioni. Lei è un luogo dove la sostanza prevale ancora sulla forma, dove si può sfuggire alle grandi, meccaniche, follie di massa, senza trarsi fuori dal presente. Qui il passato sembra giudicare il futuro criticamente, opera distinzioni tra ciò che possiede un valore e ciò che è transitorio.

A tutt’oggi l’identità della donna che ci ha condotti a Lei è un mistero, così come lo scopo del suo contatto. Ne ho parlato con Marco e anche lui è d’accordo: credo ci abbia scelti come tramite di un messaggio. Rileggo il manoscritto e ne avverto ancora l’impalpabile presenza. Ho la sensazione che si farà sentire ancora. Chiunque tu sia, noi siamo pronti.

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Volendo appagare la curiosità dei nostri lettori - e non senza riserve per via di un linguaggio un po’ ostico pubblichiamo su Chìmbe il documento pervenuto al nostro collaboratore. Il racconto è giunto a noi privo di intestazione: per mere esigenze editoriali l’abbiamo intitolato “Ellaide”. A voi l’interpretazione e il giudizio.


Ellaide Io, Flereo di Gerasidone, giunto al termine del tempo che gli Dei hanno concesso ai miei terreni affanni, dichiaro che quanto appresso è scritto corrisponde al vero; a testimonianza di ciò invoco lo spirito di coloro che presero parte a tali avvenimenti e ormai non sono più. La carne è avvizzita, il desiderio è spento, ma la memoria è longeva come una tartaruga dalla dura scorza, e fedelmente m’accingo a riportare ciò che dell’assedio d’Ella questi occhi videro. Nessuno che voglia reputarsi onesto e leale nel cuore potrà giurare dinanzi a Frea dalle Bianche Mani che i fatti accaddero altrimenti; e se uno stolto separerà il Detto e il Vero come un crudele aguzzino separa un lattante dal seno della propria madre, egli dovrà renderne conto ai Superni, che sempre sono garanti delle azioni degli uomini, e che tutto vedono, tutto odono e tutto sanno. Questo dunque è il principio della nostra storia. Iknos io chiamo l’isola che domina il medio tratto del mare, a nord delle barbare insenature dei Libi, ad ovest delle insicure coste dei Tirreni, ad est delle ricche isole Iberiche, a sud del selvaggio popolo dei Corsi. Tale nome io sentii dai marinai cretesi che a lungo solcarono il mare pei loro traffici, e seppure tal nome non sia universalmente accettato, io me ne servirò per descrivere il luogo dei nostri eventi. Pure la sentii chiamare Terra degli Shard’n, ma in verità, adoperando il nome di uno degli innumerevoli popoli che v’hanno abitato, un torto, e grave, recherei a tutti gli altri. Iknos dunque è il nome, cui non saprei dare significato, della bella isola, lussureggiante e misteriosa, che a lungo fu contesa dai popoli del mare, i quali vi approdarono e rifluirono a onde


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costanti e rapide risacche. Da tempi assai remoti, su Iknos dimorava una schiatta d’indomita gente, dedita all’allevamento e alla caccia, d’indole sì schiva da tenersi lungi dai lidi cari ai predoni, e che mai s’inoltrava nello sconfinato regno di Posidone coi propri legni, sicché nel volgere di mille e più inverni smemorò la nobile arte della nautica. Ad Iknos chiunque poteva approdare, certo, ma a stento il marinaio lasciava l’approdo, temendo d’imbattersi nel popolo, selvaggio e forte, da lui chiamato “il Popolo Interno”. Quale una donna che muta l’abito ma non il carattere, ed anzi l’abito conforma ad esso, Iknos in nessun conto teneva le genti costiere, mutevoli e incerte, custodendo nel ventre, come un sommo bene, lo spirito avito. Ordunque, vi narrerò d’un tempo in cui Iknos la bella, Iknos dalle Vene d’Argento, fu preda d’innumerevoli schiere, assetate d’anime, al soldo dell’oscuro Signore del Nulla. Nessuno sapeva chi avesse partorito siffatto demone o dond’egli venisse; taluno diceva dal mare, come ogni invasore; talaltro parlava del frutto, nero e corrotto, dell’umanità stessa; certo è che costui bramava suggere quel nettare che puro sgorga dal cuore degli uomini nobili, prezioso quanto l’oro della ricca Gorinzia, che chiamasi pietà. Ne avevano predetto l’avvento, i veggenti, ma non v’era guerriero o eroe che potesse sfidarlo, poiché egli era nessuno e moltitudine a un tempo. Carne non era, ma spirito, e come un cuculo dimora nel nido di altri, poiché vuoto lo trova, così il Signore del Nulla possedeva le anime vacue. Costoro parevano umani,

sì, ma soltanto nel corpo, svuotati d’amore e di affetti, e colmati, di contro, da vane pretese, disposti a predare la loro genìa, quasi che nati non fossero dal medesimo grembo. Io stesso, lo giuro, ho veduto al suo interno il corpo smembrato di uno di loro: dov’era il suo cuore, gonfio e pulsante, restava un gheriglio di noce, grinzoso, che pareva marcito nel fango. Sì orrenda visione, pietoso lettore, non potrò più restituirla all’oblio. Pertanto, gli uomini liberi chiamavano i posseduti “Coloro che son Vuoti”, un appellativo che rende giustizia della loro triste sorte e condizione. Luna dopo luna, inverno dopo inverno, il contagio del Nulla dilagava in Iknos, al pari delle divoranti febbri che, oltre il vasto mare, decimano i Libi. Molti dei villaggi erano caduti, ma il piccolo avamposto di Ella, nel ventre dell’isola, resisteva impavido alla triste messe d’anime. Come l’impetuoso torrente scendendo a valle sgretola i lembi dell’alveo in cui scorre, così la forza del Nulla riduceva i confini di Ella, isolando il villaggio dal resto del mondo; i Vuoti disseminavano i campi di erbe cattive, dannose agli armenti; inducevano i giovani a lasciare il villaggio, sussurrando nelle fragili orecchie: «La fine è vicina, a che scopo lottare? Deponi le inutili armi, unisciti al nostro Signore.» Ma un patto riuniva le intrepide donne di Ella; custodendo, accesa e nascosta, la Torcia di Margoos, il Dio leone, la Sorellanza s’opponeva al contagio. Come un uccello notturno, che odia la luce del giorno e alberga le buie caverne, il Nulla odiava la luce di Margoos donata ai protetti, poiché ne insidiava il potere e guariva il suo male,


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restituendo al cuore già infetto l’umana sua foggia. Gli Elliani, seppur valorosi, sentivano forte l’angoscia: semmai quella Torcia si fosse smorzata, per inganno o disgrazia, il Nulla avrebbe inghiottito il villaggio e i seicento abitanti. Altrove, in città già corrotte, gli umani di spirito libero e chiara visione restavano in pochi; saldi nell’animo, e per questo immuni al contagio, costoro comprendevano il male e temevano il Signore del Nulla. Si riconoscevano, tra simili, da sagge parole e amorevoli gesti, e s’univano in piccoli gruppi, in segreto, poiché il nemico adorava le piazze e il loro vano clamore, e mille facce assumeva e nessuna. Ebbene, allorquando la voce di Ella e della sua resistenza raggiunse la lontana Kalaris, gli uomini liberi compresero la loro salvezza, poiché nessun’arma era altrettanto efficace quanto la luce di Margoos; deliberarono quindi di trarre dalla Sacra Torcia una scintilla, sicché una face in ogni villaggio brillasse, ponendo sì fine al contagio. Dopo un travagliato concilio, dunque, venne deliberato che il valoroso Ancos, del villaggio di Arbosi; Madd-Ann il Contemplativo, del villaggio di Kuspen; ed io, Flereo di Gerasidone, umile apprendista del mago Kton e devoto ad Ermes Tre-Volte-Grande, fossimo inviati ad Ella in gran segreto, per attingere la fiamma e prelevare la scintilla del fuoco del Dio. A colui che scrive venne affidato il compito di recare seco una torcia intonsa, il cui legno, intarsiato da abili mani tarriane, fu benedetto dai sacerdoti del tempio di Imunn. Tale onore, o lettore, colmava il mio cuore di smisurato orgoglio, e al medesimo

tempo di profondo terrore: se i Vuoti avessero compreso l’intento e lo scopo della nostra missione, avremmo rischiato la vita, e Iknos avrebbe perso ogni speranza. Da giorni i corvi addestrati ai messaggi lasciavano Kalaris, la fertile pianura e le sue dolci colline, per raggiungere in volo le deserte montagne annunziando ad Ella il nostro arrivo. E alfine era giunta risposta: Margea, la Sorella Maggiore, ci attendeva per il secondo sole dell’ottava luna. Ci apprestammo dunque a partire e, messi in marcia, aggirammo i villaggi caduti e ostili, viaggiando su cavalli dagli zoccoli fasciati, e col favore delle tenebre calpestammo sentieri poco battuti, raggiungendo così la catena di montagne che il Popolo Interno chiama con una singola parola, ancorché difficile da pronunziare: “Il margine della pianura di Octan”. Tardammo però d’un giorno, poiché abbandonammo i cavalli ai bordi d’un fiume quando il sentiero roccioso si fece sì angusto da consentire il passo a un sol’uomo. Al margine d’un fitto bosco di querce, una vedetta elliana ci scorse e diede l’allarme, e in breve un manipolo di soldati ci scortò in un luogo ove una larga pietra, ancorché rozza e appena sbozzata, fungeva da altare. Qui, a guisa d’una povera bestia, un bimbo era legato a una corda, e gemeva. «Stranieri,» ci apostrofò il capo guardia, «sappiamo che avete premura d’incontrare la Sorellanza, ma qui nessun patto può andare a buon fine se non si compiono i riti d’auspicio,» e accostando la lama del pugnale al collo minuto, aggiunse: «Il sangue porrà gli Dei di buon estro.»


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Il prode Ancos, mosso a subitanea pietà, replicò: «Soldato, onoriamo le usanze di Ella, che pur non conosciamo; sappi però che donde veniamo nessun prezzo vale una vita. Qualcosa mi dice, tuttavia, che non sia nelle vostre intenzioni versare del sangue, quanto comprendere la natura del nostro animo. I gesti dunque riveleranno gli intenti: qualora il sacrificio si compia, noi tre sapremo d’aver viaggiato invano, poiché Ella è già caduta.» A tali parole, il capo guardia fece un cenno ai soldati, ed essi slegarono l’infante. «Ella non è caduta ancora,» rispose. «Perdonateci, ma questi erano gli ordini della saggia Margea, per sincerarci delle vostre intenzioni. Ora sappiamo che siete davvero chi dite di essere.» Ciò detto, il manipolo ci scortò al villaggio e alla dimora della Sorellanza, che già ci attendeva. Quivi ci accolse la Saggia Margea, e tre delle sue fide consorelle: Karistin, l’Indomita; Anabi, il Fuoco Vivo; e Gheela, l’Astuta; belle d’aspetto e fiere in portamento, come ad Iknos di rado si sarebbe veduto allora, e ne fummo incantati. La Sorella Maggiore provvide agli onori, secondo gli usi del Popolo Interno, e lavò i nostri piedi, provati dall’aspro cammino, con acqua speziata. «Benvenuti ad Ella, nobili stranieri,» disse. «Eravamo in apprensione per voi. Nessun sentiero intorno al villaggio è sicuro, e temevamo che il Signore del Nulla vi avesse catturato. Il nostro cuore è colmo di gioia, poiché siete arrivati senza danno.» A tali parole, piene di calore e buoni auspici, rispose così il nostro Ancos: «Sappiate sorelle, che i Vuoti giammai ci avrebbero vivi, poiché

appresso rechiamo quell’erba, cara ad Imunn, che procura una rapida morte; qualora la sorte ci fosse contraria, non avremmo timore d’usarla.» «Ciò testimonia del vostro valore,» replicò Margea, «e infonde speranza sull’esito di questa missione. Il concilio degli uomini liberi con accortezza ha scelto i suoi emissari. Sappiate però che il tempo è poco. Una visione ci è stata data: dopo il quindicesimo inverno io non guiderò più la Sorellanza; non sappiamo se Ella rimarrà o cadrà, e con essa l’intera Iknos. Il futuro dipende da cause che a tutt’oggi non son state poste. Ogni cosa, dunque, è rimessa nelle vostre mani.» A quel discorso, denso di funesti presagi, ciò replicò Ancos: «Quando una scintilla della Sacra Torcia verrà condotta da noi a Karalis, saggia Margea, mille emissari la trarranno nei loro villaggi, e la luce di Margoos si diffonderà su Iknos, cosicché gli uomini liberi saranno un giorno pronti a ricacciare oltremare le schiere del Nulla. Con la benevolenza degli Dei, ciò che faremo oggi cambierà il corso degli eventi: le nostre gesta ispireranno poemi e ballate, e il tuo nome verrà ricordato per molti, moltissimi inverni.» Ciò disse, e poiché ad Ancos il dono della facondia i Superni avevano concesso, le sue parole riuscirono a infondere nei cuori degli astanti la fiamma del coraggio. Margea tuttavia, che priva era di vanità, ed anzi un poco la teneva in dispregio, disse: «Liete accogliamo le tue buone parole, nobile arbosiano, ma non è la gloria che cerchiamo, quanto la salvezza e la libertà della nostra gente. Gli Dei son testimoni: quando il Signore del Nulla sarà sconfitto, i nostri bambini potranno


guardare il futuro con occhi pieni di gioia e di speranza, come un tempo felice, e questa sarà la miglior ricompensa cui possiamo ambire.» A tali parole, gli occhi delle consorelle s’inumidirono di pianto, e ciò confermò, qualora ci fosse bisogno, che l’oscuro Signore del Nulla vincere non poteva i cuori, generosi e forti, di quelle donne elliane. Assolti gli onori, la Sorella Maggiore spiegò il da farsi, e indossati i mantelli ci apprestammo a un nuovo cammino verso la cima del Monte Jamed, ad attendere il rito della purificazione, senza il quale nessun mortale potrebbe accogliere la fiamma di un Dio. Usciti dal villaggio, seguimmo dunque un aspro sentiero tra le alte querce, ed io venni rapito dalla bellezza dei luoghi. Sorella Karistin mi rivolse quindi la parola: «Il bosco del Monte Jamed è sacro agli Dei,» disse l’Indomita, «e se nulla di male ci accadrà prima d’arrivare in cima, è buon auspicio: ciò significa che la vostra missione gode dell’approvazione di Margoos.» Pronunziate tali parole, io mi guardai attorno con occhi nuovi, e potrei giurare, incredulo lettore, d’aver udito nel silenzio arcane voci sibilare tra i rami mossi dal vento. Un cancello delimitava la foresta cara a Margoos, e, appena varcato, ci colse l’intenso profumo d’erbe selvatiche. «Perdona l’impudenza, o saggia Margea,» domandò il nostro Ancos, «curiosità mi mosse dacché ci incontrammo: come accadde che fosti tu, fra tutte le donne di Ella, a diventare Sorella Maggiore?» «Sappi,» rispose lei, «che mai avremmo creduto d’esser degne d’un onore sì grande; le consorelle tuttavia videro in noi la dote del

comando, che si palesò in più occasioni, in modo assai spontaneo. Cadana, la Sorella Maggiore che ora non è più, ci prese con sé e ci addestrò per sessanta lune, e al termine ci chiese di prendere il suo posto, giurando, con voti solenni, di difendere la Sacra Torcia. Nel giorno che noi dedichiamo a Margoos, all’inizio di primavera, essa ci venne affidata in custodia, a da allora noi, con l’aiuto degli Dei, l’abbiamo tenuta accesa.» Al che Anabi, d’impeto aggiunse: «E non esiteremmo a morire, pur di onorare tale compito!» «La vostra lotta contro il Signore del Nulla ha varcato i confini di Ella,» disse Ancos, «voi avete ispirato gli uomini liberi.» E qui il volto di Margea triste si fece, e pensieroso. «Le tue parole ci onorano, arbosiano, ma sappi che anche Ella, Ella la Tenace, fu vittima del gran contagio. Un tempo, durante i consigli del villaggio, con parole amare ma velate di miele, i posseduti cercarono di spezzare lo spirito degli uomini liberi, aizzando il fratello contro il fratello, la madre contro il figlio, la figlia contro il padre. Costoro predicavano la ricchezza personale, l’indifferenza verso i deboli, l’eliminazione degli anziani, l’inutilità dell’istruzione, l’abbattimento del granaio comune, l’incendio della foresta, l’incuria per gli animali. Tali parole, poiché sensate parevano agli animi acerbi, ponevano in gran spregio tutto ciò che s’era sempre creduto, mortificando le antiche usanze dei padri, come fossero logori stracci. Fu così che per Ella iniziò un periodo di grave disgrazia. Cadana riunì allora le poche ma forti compagne, e alla profetessa richiese un’udienza; narrò costei del


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Signore del Nulla e del triste contagio, esortando a pregare Margoos per avere soccorso. Una notte, in un cielo già sgombro di nubi, nel bosco un fulmine cadde, colpendo un albero spoglio, e dal legno che ardeva attingemmo la fiamma. Un patto dunque si fece, e la Sorellanza ebbe vita: con voti solenni giurammo custodia in eterno.» Al culmine del cammino, il nostro agile drappello raggiunse un luogo ameno, che gli Elliani chiamano Zucnos. Karistin si chinò a raccogliere un’erba, e con massima cura la pose in una piccola sacca. «Da ciò che osservo, o Indomita,» dissi io, «pare tu conosca assai bene questi luoghi.» «Vedi Flereo,» rispose ella, «il mio cuore appartiene a Zucnos. Ogni primavera mio padre mi recava seco in questo bosco per il Dosorz, la grande festa in cui rendiamo grazie agli animali per la lana che indossiamo.» Incuriosito, domandai quale storia mai avesse il suo nome. «Non sono che l’umile figlia di un pastore,» rispose ella, «ma per le mie doti fui scelta tra le fanciulle del villaggio affinché apprendessi gli usi del mondo esterno, e venni perciò inviata nella lontana Tazaris. Rimasi nella grande città più di cinque inverni, dissimulando la mia vera natura e comportandomi come fanno Coloro che son Vuoti, ma poco prima di tornare ad Ella accadde che il mio cuore tradì la sua vera natura, e venni sopraffatta. Essi bramavano conoscere il luogo ove la Sacra Torcia si custodiva, per privarcene, ma io resistetti alle lusinghe e alle torture: giammai avrei rivelato il nostro segreto, nemmeno in punto di morte. In seguito, con l’aiuto del generoso Margoos, sempre sia benedetto, riuscii a

fuggire, e quando tornai ad Ella votai la mia esistenza alla Sorellanza, e Margea mi battezzò l’Indomita.» Un lungo silenzio seguì le parole di Karistin, e nient’altro aggiunsi, poiché, al cospetto d’una donna sì nobile e forte, una parola in più sarebbe stata vana. Giunti sul monte, all’orizzonte scorgemmo una capanna di legno e granito. Disse allora Gheela: «Quella è la dimora della profetessa, la nostra destinazione. Ella nacque e visse a Zucnos, e mai mise piede al villaggio, o altrove.» Nell’apprendere che in solitudine una donna fosse vissuta sì a lungo ne provai pietà, ma Gheela spiegò: «Chi nasce col dono della veggenza non può vivere fra le genti, poiché i vani frastuoni del mondo feriscono le sue orecchie: esse son talmente sottili e fini che a loro soltanto è concesso udire le limpide parole degli Dei.» Entrammo dunque nella capanna, e con nostro stupore vedemmo che era vuota. La profetessa, infatti, era morta molti inverni prima; tuttavia lo spirito continuava ad abitarne i luoghi, e la sua presenza era vivida, per le consorelle, sì com’io vedo, con questi occhi, lo stilo che verga le mie parole. Gheela e Anabi allora, a un cenno della Maggiore, trassero dei legni che deposero al centro della capanna, e accesero un fuoco. Ci fu ordinato di sedere in circolo, in silenzio. Margea chiese agli Avi di benedire la nostra missione e la torcia che recavo meco. Karistin, quindi, gettò sulla fiamma viva le erbe raccolte pocanzi, e il fumo ci avvolse; e inalandolo ci furon date molte visioni, di cui ora, per amor del vero, nulla d’opportuno potrei dire. Quale che fosse il frutto di tali visioni,


ciò solamente ricordo: che al termine io provai una meravigliosa quiete. Margea ci rassicurò, dicendo che gli Avi approvavano la nostra venuta e ci avrebbero protetto. Ringraziammo il benevolo spirito che abitava la capanna, spegnemmo il fuoco e ci incamminammo sulla via del ritorno, rinfrancati nello spirito. Rientrammo al villaggio e in nostro onore s’approntò un banchetto; ci vennero offerte le bevande più deliziose e i cibi più raffinati, preparati con sapienza ineguagliabile, com’era in uso presso gli Antichi. Nel mezzo del convivio, Madd-Ann il Contemplativo, che usava tacere, incoraggiato dal forte diono che scorreva a fiumi sulla nostra tavola, rivolse una domanda ad Anabi Fuoco-Vivo: «Sorella, dacché siamo giunti ad Ella, ho scorto tanti uomini quanti posso contarne sulle dita di entrambe le mani, mentre il villaggio sembra abitato, in gran parte, da donne. Che è accaduto ai vostri uomini, dunque?» «Devi sapere,» rispose Anabi, «che in Ella un tempo esisteva una Confraternita; gli uomini tuttavia - il cui corpo è forte, si sa, tanto quanto è debole il loro spirito - son facili prede del male. Essi, com’è usanza dei padri, non disdegnano quel nettare che colma la tua coppa, che indebolisce la mente e il cuore, e perciò si rendono vulnerabili ai demoni, sicché Ella non poteva affidarsi alle loro spade. Per far fronte al nemico, la Sorellanza e ciò che rimaneva della Confraternita si fusero in una, come due metalli d’una lega nella lama d’una spada. Non fu affatto semplice superare gli ancestrali orgogli, ma la situazione imponeva estreme misure. Il Fratello

Maggiore, l’ultimo della Confraternita, è adesso nell’ombra, pronto a sostituire Sorella Margea qualora accadesse il peggio: gli Dei ci scampino da questa evenienza.» Quasi fossimo liberi ormai dai nostri affanni, si parlò e si rise molto, poi, appena il sole intraprese la sua parabola in discesa, la Sorellanza si preparò a condurci, alfine, ove la Sacra Torcia si custodiva. Il tempio di Margoos, scavato nella nuda roccia, s’inoltrava nel ventre della terra. Nell’alveo d’una grande sala ci trovammo al cospetto della statua del Dio, in posizione eretta, alta più di nove piedi. Il suo braccio sinistro era sollevato alla mammella, il palmo aperto sotto il cuore, e all’interno del palmo brillava una piccola fiamma, di luce sì intensa che in natura non è dato trovare, e d’un colore simile al rosso screziato d’un tramonto che vidi a Daos molti inverni fa: ma il paragone è pallido e vago. Alla sacra fiamma, perché mai fosse spenta, tredici consorelle attendevano, e la nutrivano bruciando un pane che a labbra umane non era dato toccare. In un angolo, erano chine su una larga pietra, finemente levigata. Delicate mani, rapide ed use, modellavano la pasta tratta dalle dorate spighe che nascono e muoiono ad Ella, e ad Ella soltanto; e dalla pasta le dita traevano incantevoli figure: piccoli fiori, uccelli dalle lunghe code, agili cervi, affinché i dischi del pane fossero graditi al Dio leone. Devi sapere, curioso lettore, che noi tre fummo i soli stranieri ad assistere al nutrimento di un Dio, e privilegio delle nostre orecchie fu udire, sebbene senza comprenderli, i canti delle consorelle che tessevano le lodi del potente Margoos: ora io riporto


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a te, fedelmente, quanto mi fu dato d’assistere. L’angusta bocca d’un forno s’apriva alla base della statua: quivi, ornati di meravigliose figure e benedetti, i dischi del pane siffatto vennero affidati al fuoco; tal gesto provocò l’avvampare d’una fiamma sì intensa che dovemmo ripararci gli occhi col dorso della mano. In pochi istanti, la fiamma purpurea che ardeva sul palmo s’illuminò d’indescrivibile luce. Margea battè le mani, e a quel suono le consorelle si disposero in cerchio: ognuna prese colei che stava accanto pel braccio, e iniziò una danza al ritmo d’un antico strumento animato dalle sapienti mani d’un vecchio. Rapidi, i loro piedi battevano il suolo, a stento visibili all’occhio, mentre il busto stava immobile, eretto. Ora stringevano il cerchio, ora tornavano indietro, seguendo i ritmici cambi di tono, mentre la sala risuonava di frenetici passi. Fu al termine della danza che, con un gesto del capo, la Saggia comandò alle consorelle di farsi da parte, e impose di trarre meco la torcia. Tremebondo, sotto i severi occhi del Dio leone che pareva giudicassero le mie mancanze, impugnai il bastone intarsiato, attesi il consenso di Ancos, e al suo cenno raggiunsi la statua, mentre le consorelle si disponevano in due ali ai fianchi, finché, allungando il braccio, riuscii a toccare la cima della sacra fiamma. All’inizio niente accadde, ed io mi reputai indegno d’un sì grave ruolo, ma quando mi voltai verso Margea, ella con lo sguardo m’invitò a indugiare. Lentamente, istante dopo istante, la fiamma cominciò ad avvampare, e avvolse la cima del bastone

fino a moltiplicare la luce del Tempio. Dichiaro qui, dinanzi a Frea, e non senza vergogna, di non poter descrivere ciò che nel mio animo provai allora: era come se ogni mia paura si fosse dissolta; era come se Margoos stesso guidasse i miei sicuri passi, e per un istante mi fu dato conoscere il passato di Ella e il futuro stesso dell’intera Iknos, sebbene niente di tutto ciò la mia mente abbia ormai trattenuto, poiché troppo grande per un semplice mortale. La Sorellanza mi guardò con benevolenza, mentre gli occhi dei miei compagni brillavano di commozione. Adesso che la fiamma di Margoos era nelle mie mani, il mio spirito era più intrepido che mai, e già figuravo il momento in cui l’avrei deposta in un sicuro grembo, a Karalis. Senza ulteriori indugi, poiché la torcia non si consumasse pria del compimento, la nostra spedizione s’affrettò al congedo. Salutammo le fiere donne della Sorellanza con sommo rammarico e grande rimpianto: nessuno di noi sapeva se ci saremmo rivisti, e se, una volta rivisti, saremmo rimasti gli stessi o per un fato avverso il Signore del Nulla si sarebbe impossessato delle nostre anime, estinguendo la nostra amicizia. «Addio saggia Margea,» disse il prode Ancos, «con tristezza abbandoniamo la vostra dimora. Siamo giunti come stranieri, ma oggi io e i miei compagni abbiamo compreso chi siamo, donde veniamo, e, con l’aiuto degli Dei, dove siamo diretti. Io spero che le nostre strade s’incrocino ancora, al più presto, quando Iknos sarà governata da uomini liberi.» «Fate buon viaggio,» rispose la Sorella Maggiore, «e possa il vostro


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cammino esser lieve. Se Margoos ci concederà una vita abbastanza lunga, io e le mie consorelle ricorderemo questo giorno per molti, moltissimi inverni.» Ci separammo senza voltarci, e le guardie elliane ci scortarono per un lungo tratto, sin dove i cavalli ci attendevano affamati. Per l’intero viaggio di ritorno lo spirito di Margoos vegliò sui nostri passi, scampandoci da cattivi incontri e preservandoci da funesta sorte. Potemmo così giungere incolumi a Kalaris, nottetempo, nel luogo in cui il consiglio degli uomini liberi e le torce spente, ancora per poco, attendevano la fiamma purpurea che io custodivo con l’amorevole cura che si dedica a un figlio, se solo i Superni m’avessero concesso tal dono. Sino al mattino, una dopo l’altra, mille e una fiaccola s’abbeverarono alla prima, e i Portatori di Fiamma tornarono ai villaggi natii per custodirla in antri sicuri, sotto le coltri della terra, al riparo da perniciosi sguardi. Ciò che in seguito accadde, tu lo conosci bene, mio colto lettore. Così come riportano le profezie, il tempo del Signore del Nulla non s’è compiuto ancora, ed egli governa in mezzo a noi, forte delle sue schiere, e tale rimarrà sino al termine delle nostre brevi vite. Adesso tuttavia, proprio mentre scrivo, in luoghi segreti e ben protetti la fiamma di Margoos - che altro non è che la nobile fiamma dell’umanità stessa - arde ancora, protetta al prezzo della vita da uomini e donne coraggiose che mai si piegheranno all’oscurità, quantunque nessuno di loro, né dei loro figli, né dei loro nipoti, vedrà mai l’agognata fine della lunga guerra.

Quanto a me, il mio spirito arde d’incontenibile gioia, dacché, con umile servizio, feci quanto in mio talento affinché la fiamma dell’antico popolo d’Iknos continuasse a vivere tra le presenti genti, e non si spegnesse così come, a breve, spegnerò la fiamma di questa lanterna che illumina il mio lavoro notturno. Qui io termino il mio racconto: possano gli Dei perdonare la mia vanità. A loro, potenti e generosi, rivolgo la preghiera d’una morte serena, in compagnia di coloro che mi hanno amato molto, e che io, con animo sincero, ho molto amato.

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Chìmbe 01




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