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10 L’arte salverà il mondo.


S.O.S.

BVolution

Parte prima: Men in black Uffici di BVolution, società specializzata nel coaching aziendale avanzato. Gabriella, Assunta e Alessandra sono a colloquio con Carlo, un giovane e rampante consulente. – Allora Carlo, – esordisce Gabriella, – dopo sei mesi di tirocinio è il primo cliente che affronti senza affiancamento. Hai insistito molto per questo incarico. Ti senti pronto? – Assolutamente. È un cliente che ho acquisito e che vorrei gestire da solo. È una casa editrice molto piccola con problemi di organizzazione. Hanno bisogno di aiuto per mettere insieme il prossimo numero della rivista. Sono in grado di gestirli. – Ci piace la tua determinazione, – replica Assunta, – ma non commettere l’errore di sottovalutare il cliente. Potrebbe essere meno semplice del previsto. La missione è questa: porta la redazione ai massimi livelli di rendimento. Osserva il loro metodo di lavoro, individua le perdite, registra gli attriti, focalizza le incongruenze e aiuta l’editore a risolverle. – E per qualsiasi problema, – aggiunge Alessandra, – io sono a disposizione. Prendilo come un affiancamento a distanza. – Grazie, – risponde Carlo guardando l’orologio. – Vi lascio: ho appuntamento alle nove nel loro ufficio di Elmas. Non preoccupatevi, tornerò vincitore.


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Parte seconda: Animal house Alle otto e cinquantasei, Carlo s’aggiusta la camicia, passa la valigetta dalla mano asciutta a quella sudata e bussa alla porta di Chìmbe. Di là dal vetro percepisce conversazioni animate, ma nessuno grida avanti. Bussa di nuovo, senza esito. Quindi apre, e in una frazione di secondo analizza la situazione: ufficio 4x4, scrivanie invase da libri e fogli, avanzi di crackers e mele smozzicate, borse, zaini e notebook dappertutto. Un tavolo di vetro e cinque persone attorno: Masha e Denver che sghignazzano davanti a uno schermo; Tachi, Milla e Nenno che s’accapigliano sul soggetto di un racconto, in un crescendo di voci. Nella scrivania a sinistra, Ellis e Peby impegnate al telefono. Carlo posa la valigetta e annota qualcosa sul taccuino. Richiama l’attenzione con un gesto, Ellis s’accorge di lui e fa cenno d’avvicinarsi. – Buongiorno, sono Carlo di BVolution. – Ti aspettavamo! Carlo si guarda attorno. – Beh, non sembrerebbe. – Non farci caso, accomodati. Ragazzi, questo è Carlo di BVolution: è venuto a darci una mano! Si solleva un coro di “ciao Carlo”, poi ognuno torna alle proprie faccende. – L’editore? – Doveva essere qui, presumo sia ancora in viaggio. – In viaggio? Avevamo un appuntamento. – È andato a Bulzi a portare una copia della rivista a un nostro abbonato. – Una sola copia? A duecento chilometri? Non avete un metodo di distribuzione meno dispendioso? – Ci sarebbe, ma a Cugò piace il contatto umano coi lettori. Sai, il feedback emozionale, quelle cose lì. Carlo annota sul taccuino. – Posso parlare col vice? Sei tu? Mi riassumi l’organigramma? – Allora: tecnicamente io sono la Scoordinatrice Editoriale. Un vero e proprio vice non ce l’abbiamo: Peby qui è la Direttrice Irresponsabile, poi abbiamo

un Irresponsabile Narrativo, anche se rifiuta l’incarico e dobbiamo rinegoziarlo a ogni numero. Però a quest’ora dorme. Vuoi che lo chiami? – No no, ci mancherebbe altro. – Se ti serve abbiamo anche un Irresponsabile Grafico, ma siccome la riunione era alle nove, non lo vedremo prima delle dieci e mezza. – Non avete orari? – Certo che li abbiamo: ognuno ha i suoi. – Ma esiste una gerarchia, qui dentro? Come funziona il meccanismo? – Il meccanismo? – Capisco che siete dei creativi, ma ogni azienda ha un meccanismo che garantisce il funzionamento dell’attività. – Teoria interessante. Sai, non siamo molto ferrati in queste cose. Ci muoviamo sulla base delle impellenze. Ti spiego: per mesi ci impegniamo a organizzare riunioni. Quando finalmente siamo riusciti a farne una, abbiamo quindici giorni per mettere in piedi il numero, e allora diventa un po’ un delirio. Poi, a un paio di giorni dalla scadenza, puf!, basta spostarla in avanti e passa la paura. Tanto i lettori non trattengono mica il fiato aspettando noi. Carlo passa una mano sulla fronte imperlata di sudore. In quel momento irrompe nell’ufficio Cugò, trafelato. – Missione compiuta ragazzi: il nostro lettore non c’era, ho lasciato la copia alla colf ucraina che non conosce l’italiano ma l’ha sfogliata e ha detto che è vera letteratura. Siamo o non siamo dei geni? Tutto bene, Ellis? Mi ha cercato qualcuno? Giofi si è svegliato? Riccio ha mandato le illustrazioni? Tu sei un nuovo scrittore? Piacere, Cugò. Hai qualcosa da farci leggere? Ti preparo un caffè. Ricordami il tuo nome… – No, niente caffè, grazie. Io sono Carlo e, ahimé, non sono uno scrittore. Rappresento BVolution. – BVolution? Grandi! Cosa possiamo fare per voi?


BVolution

– Veramente ci avete chiamato voi. Avevamo un appuntamento. Cugò sgrana gli occhi. – Giura! – Ce l’ho qui sull’agenda. Ho parlato con un certo Giofi. – Adesso ricordo: mi ha detto che siete fortissimi. Tutte quelle robe strane, il denaro come energia, i test psicologici, gli schemi colorati… io vado matto per queste cose. Sono tutto tuo: partiamo pure. – Possiamo iniziare solo se ci siete tutti. – Ellis, a che ora è partito Riccio da casa? – Se la riunione è alle nove è partito alle nove. – Come mai Giofi non è qui? Hai visto se la convocazione su whatsapp ha le spunte blu? – No, non l’ha ancora letto. Lo sai che ha silenziato le notifiche su “Fare per Chìmbe”. – Avete una chat di gruppo? – domanda Carlo. – Ne abbiamo sei, – risponde Cugò. Poi, a Ellis: – L’hai inviata su “Disfare per Chìmbe”? – Ha silenziato anche quella, da quando Riccio e Nenno l’hanno intasata di freddure. – E su “Gente-che-si-sveglia-alle-sette per Chìmbe”? – Uhm. Mi sa che in quel gruppo non l’abbiamo inserito. – Passami il telefono, lo butto giù dal letto. Parte terza: Galline in fuga Una montagna di minuti dopo, anche Riccio e Giofi sono del gruppo. Finite le presentazioni, Carlo si alza e richiama l’attenzione facendo tintinnare la penna su un bicchiere. – Signori, come forse sapete, BVolution è qui per darvi una mano a gestire questa bellissima impresa. Ho appena consegnato al vostro editore un importante questionario per comprendere il funzionamento della redazione, la dinamica dei rapporti interpersonali, e trovare il modo per ottimizzare le risorse a disposizione. Io avrei già annotato un paio di punti critici su cui si potrebbe

intervenire, ma prima vorrei sentire voi: cosa vi aspettate da questa esperienza? Quali energie siete disposti a investire per migliorare la vostra attività? Chi di voi inizia? Pausa di silenzio. Cugò dà una gomitata a Giofi e sussurra: – Dai un senso alla tua presenza qui, dì qualcosa di intelligente. Per cosa ti pago? – Tu non mi paghi affatto, – risponde Giofi grattando via la cispa dall’occhio sinistro. – Tutti sindacalisti quando c’è da lavorare, eh? Silenzio di tomba. Poi, dal fondo, Masha solleva lentamente una mano. – Sì? Tu sei Masha, vero? Prego, cosa volevi dirci? – Io volevo dire che sono le undici. Carlo è perplesso, ma apprezza l’iniziativa. – Acuta osservazione. E questo ci porta a concludere che…? – Che è l’ora dell’aperitivo! Baci e abbracci: il gruppo sciama fuori come il sabato alla quinta ora di matematica. Parte quarta: Un’impresa da Dio Due settimane dopo, negli uffici di BVolution, Carlo è di nuovo a colloquio con Gabriella, Assunta e Alessandra. Ha perso l’aria spavalda, ha la cravatta slacciata e un accenno di occhiaie. Assunta sta analizzando il diagramma dei risultati. – Credetemi, – dice Carlo, – io ce l’ho messa tutta. Presi singolarmente sono dei bravi ragazzi, ma non hanno la minima idea di come si porta avanti un’impresa. Agiscono in modo irrazionale, scoordinato, caotico. L’editore non comanda: patteggia. Date un’occhiata ai risultati del test: sono totalmente incoerenti. – Così a naso, – dice Assunta, – direi che il questionario che gli hai somministrato è stato compilato da due persone diverse. – Ecco, vedete? Non mi hanno preso sul serio. Ve lo giuro: è un cliente impossibile.


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– Carlo, – replica Gabriella, con estrema calma, – nessuno della squadra di BVolution ha mai rinunciato. Noi non ci arrendiamo mai, per principio. – La responsabilità di un fallimento, – aggiunge Assunta, – è sempre ed esclusivamente nostra, ricordalo. Significa non abbiamo trovato la chiave per comprenderli. Carlo riflette e annuisce. – Significa che ho ancora bisogno di te, Alessandra. – Adesso ci prendiamo un caffè, – replica lei, – e mi racconti tutto dal principio. Chiama casa e annulla gli impegni: non ci muoviamo da qui finché non abbiamo una nuova strategia. Parte quinta: Terapia e pallottole Ufficio di Chìmbe, due giorni dopo. Cugò è in piedi, di fronte alla non-redazione, e tiene il discorso delle grandi occasioni. – Ragazzi, Bvolution vuole riprovare con noi. Dicono che non si arrenderanno finché non funzioneremo a dovere. Tra qualche minuto sarà qui un nuovo upgrader. Mi raccomando: vi voglio belli concentrati. L’uscita del prossimo numero dipende dalla nostra disciplina. – Vi ricordo, – interviene Riccio, – che nel 1978 mi sono votato all’anarchia. Per cui mi impegno già da ora a ignorare qualsiasi tipo di disciplina. Mi conoscete, sono una persona estremamente coerente: i miei tempi sono sacri. – Hai rotto con la coerenza! – sbotta Tachi. – I tuoi non sono tempi, sono ere geologiche! – Ragazzi vi prego, non litigate, – dice Milla, – facciamo fronte comune contro la minaccia esterna. – Io spero solo che questo up–qualcosa abbia gli attributi, – chiosa sarcastica Nenno, – perché qui dentro ne avrà bisogno. Bussano alla porta. Cugò va ad aprire e un istante dopo si blocca sulla soglia, interdetto. Fa entrare

una ragazza che indossa un camicione giallo alle ginocchia, stivali rossi, una parrucca viola e un cappello da Babbo Natale. Nella destra ha un ombrellino rosa con una stella in punta, nella sinistra un fischietto col tubo di carta arrotolato in cima. – E tu sei…? – domanda Cugò, tra il perplesso e il divertito. – Come chi sono? – risponde Alessandra, piccata. – Sono Mèmole! Lungo e meditativo silenzio del gruppo, colto in contropiede. Quindi, dal fondo, Masha fa schioccare la lingua. – Seh, vabbè. Sono le undici. Lo sapete che significa? Alessandra guarda Masha negli occhi, spiritata. Porta il fischietto alla bocca ed esclama: – Che è tempo di trasformazione! PEEEEEEEEEE!!! Risate e applausi. Epilogo: Qualcosa è cambiato Ufficio di Bvolution, un mese dopo. Cugò è a colloquio con Gabriella, Assunta e Alessandra. – Lasciatemela, – esclama Gugò, – la assumo io, vi prego. Qui è sprecata. Se non potete darmela full time, datemela a mezza giornata. Gabriella ride e poggia una mano sulla spalla di Alessandra. – Ma nemmeno per sogno. Alessandra è una colonna di BVolution. – Voi non capite: io la amo. Sono pazzo di lei. Tutta la redazione lo è. È riuscita a convocare una riunione al completo con un ritardo di soli quaranta minuti, vi rendete conto? Siamo diventati un’azienda seria! Guardate: ha riempito l’ufficio di post–it scritti da lei. Ce li siamo trovati ovunque, sulle sedie, dentro le borse, nelle custodie dei cellulari, in bagno. Ve ne leggo un paio, state a sentire. Se il tuo gruppo striscia a terra / Il denaro può ben poco / All’inerzia puoi far guerra / Motivandolo col gioco! Oppure questo: Il mercato t’offre i dati / Nel dettaglio guarda i conti / Sono i numeri alleati / La migliore delle fonti! O questo: Non


Chìmbe racconti di imprese

numero 3 - aprile 2017 periodico quadrimestrale a distribuzione gratuita registrato il 9/11/2015 col numero 12 presso il Tribunale di Cagliari ISSN: 2499-8230 _____________

fissarti come un palo / Su una vecchia strategia / Con prontezza cambia al volo / Esser rapido è la via! Capite? Sono commosso, vorrei piangere. – E secondo te, – dice Assunta, – cediamo senza lottare un upgrader che attinge a qualsiasi risorsa creativa pur di portare a termine l’incarico? Sii realistico. – Lo so, mi dispiace: l’irrealtà è il mio mestiere. – Posso chiederti cosa avete imparato da questo mese di training, Cugò? – Due cose fondamentali. Uno: ciò che siamo. Ho fatto incidere su una piastra d’ottone lo spirito della nostra impresa: Chìmbe è la tavola rotonda dove gli imprenditori diventano eroi. Due: che non diventeremo mai un’azienda come le altre, ma che possiamo trasformare i nostri difetti in unicità. – Mi è venuta un’idea, – dice Gabriella. – Ti propongo un’alleanza. Vi diamo il permesso di convocare Alessandra ogni volta che ne avete bisogno, ma voi, in cambio, ci fate da campo d’addestramento per i nostri tirocinanti: se ritornano tutti interi si sono guadagnati il diritto di stare in BVolution. Che ne dici? Cugò guarda la mano tesa di Gabriella. Riflette, poi la stringe. – Dico che sono le undici. Aperitivo?

______________ una produzione BVolution - Alessandra Deidda bvolution.it © Chìmbe - riproduzione riservata

direttrice responsabile: Federica Lai coordinamento editoriale: Elisa Comparetti editore: Chìmbe di M.C. via Boiardo 12 09047 Selargius (CA) chimbe@chimbe.it www.chimbe.it ROC n.26278 tipografia: Press Up srl Roma (RM) www.pressup.it _____________ racconti: Eliana Carrus Fabrizio Garrucciu Giuseppe Pili Cristina Soddu illustrazioni e grafica: Daniele Tomasi impaginato con: Adobe inDesign font per la testata della rivista e i testi delle storie: Candara _____________ per raccontare la tua impresa: e per la distribuzione: chimbe@chimbe.it _____________ Chìmbe è un marchio registrato. © Tutti i diritti sono riservati. Questa pubblicazione è protetta da copyright © Ogni riproduzione è assolutamente vietata. Le storie sono opere di finzione e non possono in nessun modo essere considerate come articoli giornalistici. Per esigenze narrative i racconti di Chìmbe mescolano realtà e fantasia in proporzioni variabili, per cui i personaggi rappresentati non sono identificabili con i loro ispiratori o sovrapponibili a loro. Ciò che appare all’interno della rivista è il frutto della trasfigurazione artistica degli autori. Il responsabile del trattamento dei dati personali, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. g) del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 è Chìmbe di M.C. via Boiardo 12, 09047 Selargius (CA) chimbe@chimbe.it - www.chimbe.it

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Dove trovare

Chìmbe

Chìmbe è una rivista gratuita che viene distribuita nelle aziende e, attraverso le aziende, in punti di lettura selezionati. Grazie all’intuito e alla sensibilità degli operatori culturali, viene ospitata in modo permanente nelle migliori librerie, in biblioteche e mediateche, e distribuita durante i festival e gli eventi letterari di maggior successo. È disponibile in versione cartacea e digitale su chimbe.it. Se gestisci un luogo accessibile al pubblico e vuoi diventare un “distributore gratuito di racconti”, mandaci una e-mail a chimbe@chimbe.it

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L’Arte salverà il mondo S.O.S.BVolution

LAC - Liceo Artistico Statale

BVolution

Istruzione

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Maria Gabriella Ranno (Operation Manager) mg.ranno@bvolution.it

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Mondo felice

La notte più lunga

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I racconti del

numero precedente

L’ineffabile metodo Chìmbe Giofi e Cugò conquistano l’ufficetto. Il Signor Poddex li inchioda per trecentoventicinque minuti parlando delle porte scorrevoli e della nipotina Belén, nata due settimane prima e più fotografata dell’originale. A pomeriggio inoltrato, Cugò e Giofi si congedano e rimontano in auto. – Dimmi che hai già un’idea, – domanda Cugò, – ti scongiuro. – Sì. Cambiamo mestiere. di Giuseppe Pili, per Chìmbe .......

Il libro nella mano destra Mentre il capotreno fischiava il primo avviso, lui incrociò le mani dietro la schiena. «Destra o sinistra?». «Sinistra» risposi. «E nella destra che libro c’era?». «Te lo regalo quando torno!». Il terzo fischio del capotreno segnò la fine della conversazione. Qualche sorriso, poi la sua schiena. Non sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto. di Claudia Pirina per Miele Amaro, libreria Cagliari , via Manno 88 070666423 - libramaro@libramaro.com .......

Gordon sa Gordon sa. Gordon ha viaggiato tanto. Ha visto luoghi, mari, terre, e alberi con foglie gialle che suonano al vento come una banda di ottoni. Gordon sa. Conosce un segreto. Gliel’ha detto uno sciamano vecchio, con le rughe sulla bocca. “Tu sei un musicista,” gli ha detto quella notte, “e i musici son maghi, sempre in giro a cercare i suoni. Cerca il suono giusto…” di Andrea Pau per DivaSalotti, divani e poltrone Cagliari - Sestu, ex s.s.131 km 10,5 Sergio Melis - divasalotti.it - info@divasalotti.it .......

Chiudi gli occhi «Apri la bocca». Con una mano mi tiene le mani, e con l’altra mi poggia qualcosa sulle labbra. Apro la bocca e lo inghiottisco intero, capisco che non devo morderlo, comincio a scavarlo con la lingua. Mi muovo a cerchi concentrici, quando capisco che sono arrivata tengo la mano, la spingo sulle mie labbra. Sto per goderne quando una voce mi dice «Apri gli occhi». di Claudia Pirina per Fabrizio Fenu, maestro gelatiere Bar Centrale, Marrubiu (OR), via Napoli 131 0783856085 - fabriziofenu79@gmail.com .......

In corsa, in cammino I sondaggi sono sconfortanti, mi danno finito, passato, archiviato. Con la mia squadra siamo impegnati a cercare una comunicazione vincente, o queste elezioni s’affonda. Cosa fare cosa non fare, poi Silvia ha un illuminazione. – Mia zia fa parte dei Camminantes. E conosce Zigheddu. Lo dice come fosse impossibile non sapere chi è. – Davvero non sai chi è Zigheddu? di Giuseppe Pili per AF Motors, concessionaria automobili Cagliari - Sestu, ex s.s.131 km 8,5 Clementina Fodde - 07022222 - afauto.it - info@afauto.it .......

Vecchie ruggini e nuove terapie Dopo dieci minuti di coda a osservare le tre farmaciste, impeccabili, iniziò a sospettare che fosse tutto troppo perfetto, e il primo requisito di un’attività illecita è: non destare sospetti. Alla cassa, un ragazzo sulla ventina, magro e butterato, si rivolse a una delle farmaciste: «E poi, per quell’altra cosa?». E la donna rispose: «Stasera, verso la chiusura». di Giuseppe Pili per Farmacia Fanni Villacidro, via Su Ponti de su Vicariu 12 Cristina e Barbara Fanni - 0709310011 farmaciafanni.it - informazioni@farmaciafanni.net .......


11 Wu Wei Sii come l’acqua. Agisci senza agire. Sii come l’acqua: nulla esiste al mondo di più adattabile. E quando cade al suolo, persistendo, nulla esiste di più forte. Piegati agli eventi come l’acqua si adatta al terreno in cui scorre, senza rigidità, senza pregiudizi, senza trattenere nulla, ma in piena consapevolezza. Sii come l’acqua, perché essa è il bene supremo. di Giuseppe Pili per Pierpaolo Vacca - Agente responsabile zona di PHYTOMER, cosmesi eco-responsabile 3936955502- pierpavacca@gmail.com ....... Il sole e la luna Oggi, il grande giorno, è un mercoledì. Andrea ha programmato di fare una deviazione, di nascosto da tutti. Ha chiesto al suo amico Ivan di coprirlo. In un attimo Andrea si avvicina a Giulia: «Vieni che ti porto in un posto». La ragazzina lo guarda con diffidenza, «E dove, in spiaggia?». «No… ma dove ti porto c’è l’acqua, ci sono i pesci e una sorpresa per te». di Cristina Soddu per Sole e Luna , pizzeria Selargius (CA), SuPlanu, piazza Boiardo 4 (fianco Poste) Simonetta e Massimo - 070530858 pagina Facebook: Pizzeria Sole e Luna Su Planu ....... La squadra «Hai organizzato il trappolone? Adesso la paghi». «Ok, pago tutto, ma ho bisogno di una mano. Sono alla canna del gas. Ascolta, domani organizzo un’amichevole e ti faccio assistere, così hai il polso della situazione». «Non serve. ho radiografato la situazione. Il metodo io ce l’ho incorporato». «Sei un grande. Hai anche individuato il problema?». «Ce l’ho di fronte». di Cristina Soddu e Giuseppe Pili per Nicola Mascolo di BVolution, agenzia di consulenza aziendale strategica Maria Gabriella Ranno, mg.ranno@bvolution.it Maria Assunta Vinci, ma.vinci@bvolution.it - bvolution.it ....... Il signore delle panchine Ugo prese Gabriele per mano e lo portò in fondo alla sala d’aspetto. Sul pavimento c’era una porta magica identica a quella del soggiorno. La scritta incomprensibile e i due simboli uguali erano nello stesso punto. Gabriele lo tirò per i pantaloni e, assicurandosi di non essere sentito da nessun altro, gli sussurrò all’orecchio «Tu lo sai cosa sono quei segni?». di Eliana Carrus per Serra Eligio marmi e graniti Villasor, via Tevere 11 Ugo Serra - 0709648008 - marmiserra@tiscali.it

Insieme contro il dolore La gamba. È come se me la segassero. Tagliatemi la testa. Vediamo se va via il dolore. Devo mettere su una facciata, essere quello che gli altri vogliono che io sia. Ho una moglie e un figlio che contano sul fatto che sia forte. Non hanno idea di quello che sto passando. Voglio morire. Addormentatemi, sedatemi. Questo non è un modo di vivere. Chi vorrebbe vivere così? di Marco Concas e Daniele Tomasi per Insieme Contro il Dolore, associazione di utilità sociale segreteria c/o Aservice studio Cagliari, Via Machiavelli 136 tel: 800181418 - fax: 07042939 segreteria@aservicestudio.com www.insiemecontroildolore.org ....... Storie di libri e leggende «Ha comprato una casa nel bosco. Poi ha comprato il bosco e lo ha trasformato in una fortezza collegata alla polizia. Cercava di lasciarsi dietro il passato, senza rendersi conto che aveva deciso di guardarlo in faccia costantemente. Gli hanno offerto una cattedra alla City University of New York. Si è trasferito lì. JB è un animale ferito, gioca bene le tue carte!» di Marcello Lasio, soggetto di Claudia Pirina per Prohairesis, associazione culturale Cagliari, piazza Marghinotti 1 Saverio Gaeta - www.leggendometropolitano.it info@leggendometropolitano.it .......

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Mondo

felice di Fabrizio Garrucciu

Mondo. Staccati da quella ringhiera. Josephine. Josephine Josephine Josephine. Come sempre, Mondo. Torna qui. Ok. Pay per click. Cosa? 22.800.000 risultati. Va bene. Questa da dove l’hai presa. Signore al telefono. Quale signore al telefono? Quel signore al telefono a cinque metri da noi sul ponte del traghetto. Dunque, la storiella è questa: io e Mondo ce ne torniamo alla Maddalena nella mattina del quattordici settembre, odore di pioggia da sopra, acqua di mare e gasolio da sotto. Il buon vecchio ragazzo mi sta facendo una testa così con Josephine da due settimane. Josephine è una studentessa inglese di ventidue anni né bella né brutta, che si è fatta una vacanza da studentessa inglese con altre studentesse inglesi della sua età per una quindicina di giorni. Chiaro fin qui? Un mese fa mi irrompe in negozio e ci passa un’ora a rivoltarlo da cima a fondo, e wonderful qua e wonderful là, saccheggia dolciumi come se ne andasse del suo futuro e il diabete fosse

nient’altro che stucchevole folklore mediterraneo, che a me va bene, perché ho scontrinato in una mattinata quanto mezza settimana, ma, wonderful qua wonderful là, sventolando la codetta bionda e strabuzzando gli occhioni lungo ciascuno dei cinque scaffali, in qualche modo mi manda in orbita il ragazzone. Non sapevo come prenderla, perché non avevo mai visto mio fratello innamorato. Si capisce che la sua non può essere una sbandata qualsiasi. Lui ha tutta la sua realtà da gestirsi e su cui fare manutenzione a modo suo per prendersi il disturbo di viversi anche la nostra. E quindi un po’ mi sono preoccupato. Anche perché lui non bada mai troppo ai clienti, e meno ancora li guarda in faccia, impegnato com’è nella sua personale campagna di risoluzione di tutti gli schemi di sudoku dell’universo. È una di quelle fisse che gli passano non appena si trova qualche nuovo passatempo maledettamente complicato, tipo memorizzare fotograficamente il maggior numero possibile di SERP di Google – come poi ha preso a fare da qualche giorno – ma al momento deve avere una certa importanza nella realtà parallela racchiusa in quel suo cervellone speciale. Apro e chiudo una parentesi: so cos’è una SERP – è una pagina di risultati di un motore di ricerca – perché me lo ha spiegato quel signore al telefono, ma ci arrivo dopo. Il punto è che quella volta non solo Mondo ha guardato, ma ha anche sorriso. Quella volta e anche il giorno dopo, e poi gli altri giorni che Josephine è tornata, sempre più turlupinata dalla


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protezione solare, a rimpinguare la scorta, una prassi che mi ha costretto a incrementare la produzione delle barrette al cioccolato e mirto finché non se n’è ripartita da Josephine-e-basta qual era, che mai mi sarei immaginato ad alzarmi alle cinque del mattino per star dietro alla domanda crescente di un solo consumatore, se non fosse che quando quella gioiosa biondina scorrazzava per il negozio mio fratello era felice. Non posso dire che lo era con la effe maiuscola perché quello sono io. E infatti, il nostro negozietto (nostro… abbiamo un organigramma aziendale del tipo 1 + 1) si chiama Mondo Felice. Beccatevi questa. Ora, il signore al telefono. Quaranta minuti di chiamata, una sfilza di termini tecnici rovesciati dentro a un discorso intellegibile soltanto per chi lo sta ascoltando dall’altra parte dell’etere. Mondo, come fa lo sa solo lui, è perfettamente in grado di intabellare quei tecnicismi di cui, ci metto due mani sul fuoco, capisce quanto me, tipo “SEO”… 491.000.000 di risultati. Grazie Mondo, ora dormirò sonni tranquilli. E poi link popularity… 4.670.000 risultati. E così via. Ora, dev’esserci una forma di connessione empatica fra le persone brillanti e quelli come mio fratello che noi esseri umani medi non riusciamo a intavolare con gli esemplari della nostra stessa risma. Bell’e che finito il colloquio, l’uomo ci fa un’alzatina di testa da lontano, si ficca il cellulare in tasca e viene verso di noi. «Luigi Vargiu» dice tendendo la mano a Mondo, e guardando me con un sorriso. Mondo allunga il braccio con prontezza militare, rigido rigido davanti a sé, la mano aperta, le dita allineate in perfetta perpendicolarità, e via di stretta di mano vigorosa. Caspita. Mi alzo in piedi, porgo la mano a mia volta e mi presento. Poi gli dico che lui è Raimondo, che ha trentaquattro anni, che è mio fratello maggiore ed è un filo assente, oltre che ripetitivo nel fargli il verso. Mondo intanto continua a srotolare cifre a sei zeri come se Vargiu avesse fatto puff svaporando in una nuvoletta blu. Se l’interruzione lo ha infastidito, non l’ha dato a vedere.

«È in viaggio di lavoro?» gli chiedo. «Da cosa l’ha capito?». «Quattro inglesismi da computer e sei acronimi nel giro di trenta secondi… vuole scherzare? Mi manda il fratello in loop. Cos’è lei, una specie di programmatore?». «Non esattamente. Mi occupo di strategie di web marketing. Posizionamento e visibilità sui motori di ricerca. E sì, ero al telefono col mio ufficio». 51.900.000 risultati. Il signor Vargiu se lo studia per un paio di secondi. Poi mi fa «Lui è…». «Autistico. E anche un bel po’». «Sì l’avevo intuito». Poi si piega sulle ginocchia e guarda mio fratello in faccia. «Però cambia, non è sempre uguale. Ci hai fatto caso Mondo?». Mio fratello adesso è una statua di cera. Bello gagliardo, stagliato sulla striscia di mare ad affettare l’orizzonte col naso puntuto e ad accarezzare nuvoloni con i capelli scompigliati. «Ti faccio vedere» continua il Vargiu sfoderando il telefonino. «Ecco: web marketing ora mi dà 50.800.000 risultati. Fra le altre cose, c’è di mezzo il TrustRank, l’algoritmo di Google, che rielabora i risultati a seconda delle operazioni di posizionamento più o meno volontarie e calcola una stima approssimativa delle ricorrenze». 753.000 risultati. «Per il TrustRank? Mmm, non se lo scrivi staccato» dice facendo l’occhiolino. «Ecco qua: 9.400.000 risultati». Poi guarda me: «Un bell’assillo, eh?». «Si tiene occupato, sì. Ora è così, fra un mese la prenderà con qualcos’altro. Il bello è che non gli si è mai fusa la centralina». Vargiu ride, poi mi si siede accanto. «Siete del posto?». «Sì, abbiamo un laboratorio di dolciumi qui alla Maddalena. Tutte ricette originali». «Ah, bene. Allora ci faccio un salto di pomeriggio, dopo aver sbrigato un paio di cose». Così gli dò l’indirizzo e l’orario di apertura. Quindi ci salutiamo, ora che il traghetto ha attraccato.


Strogoff

«Si può?». Il campanellino appeso sulla porta canticchia l’arrivo del signor Vargiu alle quattro e mezza spaccate con tale precisione da farci una coppia omozigote di due e un quarto. Gli grido un «Avanti» da dietro la vetrata del piccolo laboratorio, con le mani infarinate e la bandana in testa. Mondo se ne sta comodo dietro al bancone ipnotizzato dallo schermo del portatile. Gli ho rimediato una poltroncina ergonomica perché non volevo che gli venisse una spina dorsale a forma di cavatappi. «Scusi lo stato, mi stavo portando avanti il lavoro» dico io. «Non c’è problema. Io dò uno sguardo in giro». «Faccia con comodo. Può farmi un fischio al termine dei cinquanta secondi che le serviranno per ispezionare tutti i reparti. Vuole un pugno di molliche casomai si dovesse perdere?». Vargiu ride, poi si mette a curiosare in giro. Lo lascio fare mentre vado a sistemarmi un attimo il look. «Come va Mondo?» fa da dietro lo scaffale delle marmellate biologiche. Josephine va pazza per la marmellata di fichi. «Ci sei anche tu allora». Poi mi si avvicina. «Josephine sarebbe?». E così gli spiego tutta la tiritera. «Ahi ahi» sorride. «E quindi non si darà pace finché questa Josephine non rispunta. Mi tolga una curiosità» e intanto ha già l’abbraccio ricolmo di merce, «se mai dovesse accadere, che cosa succederebbe?». «Mmm, a occhio e croce suppongo che mi toccherebbe organizzare una spedizione di prodotti qualcosa come una volta al mese. Vuole un sacchetto?». «Grazie. Lo ha allestito lei così?» mi chiede indicando l’arredamento del negozietto stile casa degli gnomi. «La disposizione è mia. Per le decorazioni in legno e i murales mi sono fatto aiutare. Il disegno di partenza invece è di Mondo». «Sul serio?». «Gliel’ho detto che è in gamba». «Direi!» sussurra guardandosi intorno e studiando tutto l’arredamento degno delle migliori illustrazioni

basate su un viaggione di Tolkien. Sì, mi si conceda, vado abbastanza fiero del nostro personale forellino nel pianeta. «E i prodotti, mi diceva…». «È quasi tutto il risultato di mie sperimentazioni in giornate di noia, eccetto un paio di idee casuali che sono saltate in testa a mio fratello. Le barrette al cioccolato e mirto, ad esempio, se l’è inventate lui l’hanno scorso mentre dormivo. Mi sono ritrovato sul banco un pastrocchio osceno da vedere, ma quando ho assaggiato, porcaccia la miseria! E guarda caso, sono proprio la cosa di cui quella benedetta ragazza non riusciva proprio a fare a meno. Credo che ci sia di mezzo anche questo fattore. Non è che il buon vecchio Mondo si sia preso molte altre soddisfazioni nella vita». «Ho capito. E… gli affari?» mi chiede col cellulare in mano, dopo aver preso a scattare foto qua e là. «Come un po’ tutti. D’estate si lavora bene, il turista non manca. Nel resto dell’anno… che glielo dico a fare». - «Mmm, eppure la vostra peculiarità – Oh, Mondo, “peculiarità”!». «… 3.390.000 risultati». «Non mi freghi, questo termine l’hai appena cercato!». «Lei dice?» faccio io. «Probabile. Se ho capito come ragiona, è facile che abbia registrato risultati di ricerche relative al posizionamento web prima di qualsiasi altra cosa». «Le basta un “uhm” o posso prendermi la libertà di dirle che non la sto seguendo?». Ridacchia. «Mondo ha una mente metodica, schematicamente raffinata. Se ci pensa, nel momento in cui ha deciso di smanettare su di un motore di ricerca, dovendo scegliere da dove partire, perché non farlo dagli argomenti correlati al motore di ricerca stesso? Mondo non sta memorizzando pagine a caso. Ne sta studiando il funzionamento». «Oh… e a che pro?». «Per capire come trovare Josephine, la butto lì». «E lei questo lo sa perché…?».

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«Perché è il mio pane quotidiano». Devo ammettere che ancora non ci ho capito una mazza. E se è per questo ancora non mi spiego perché continua a fotografare che manco CSI. «Dica un po’, sta pensando di farci una recensione?». «Può darsi» mi fa scartando una mitica barretta e fagocitandone una metà. «Prima dovrei testare il livello di qualità! Metta sul mio conto». «Offre la casa». «Bene. In realtà ho un’idea migliore». «Ah» sorrido, le braccia conserte. «La ascolto». «Voi non avete un sito web, né una pagina sui social». «È una domanda?». «No, è una constatazione. Perché diversamente li avrei già trovati». «Non mi dica». «Poniamo il caso che lei possa incrementare i frutti della vostra attività facendola conoscere a un pubblico più vasto della gente del posto e del turista stagionale, non ci farebbe un pensiero?». «Stavo pensando di fare una pagina su facebook, poi quello mi ha fregato il pc…» sghignazzo. «Facciamo così… creiamo una bella pagina web con la descrizione dei prodotti e del processo di produzione, corredata di immagini di presentazione, che guarda caso mi sono già procurato. Ne serviranno altre, e di qualità migliore, ma a questo pensiamo dopo. Ci includiamo anche l’opzione multilingue. Insomma, lasci fare a me». «Va bene, proviamo. Vediamo che succede». Non mi dà il tempo di finire la frase che passa dietro il bancone e si affaccia sulle spalle di mio fratello. «Posso?». E cavolo, può! Con me generalmente Mondo si scoccia, ma a lui ha ceduto il pc senza esitazione. «Non sarà difficile darvi una buona visibilità» commenta mentre ticchetticchia sulla tastiera. «Mondo! Che mi dici di Strogoff?». Mio fratello risponde in automatico. Guàrdati da Ogareff. I tartari stanno arrivando. «Vedo che conosce Verne» sorride compiaciuto il

nostro ospite acuto. «Conosce? Se l’è mangiato. E anche Stevenson, e Asimov e tutta quella roba lì». «Sì ma, su Google?». 843.000 risultati. «Sì, all’incirca. Questa la sapevo anch’io. Strogoff è tanto il nome del corriere dello zar quanto quello della mia società. Che poi è da lì che l’ho preso» sorride con quell’aria da pronti via vi rificco in un discorsone attorcigliato. «Ora, la visibilità sul web si costruisce agendo su diversi livelli più o meno diretti. Sul piano indiretto, si tende a studiare i contenuti di un sito in modo da renderne chiaro e immediato il riconoscimento da parte dell’algoritmo sulla base delle ricerche degli utenti, ed è un’operazione cruciale quando più siti e pagine social simili concorrono al posizionamento. La strategia più efficace da adottare a monte della creazione di una pagina però è quella di darle “un’etichetta” univoca. Mi riferisco soprattutto a quello che in gergo si chiama indirizzo, altrimenti detto URL». 2.110.000.000 risultati. «Figurati… e dimmi un po’ Mondo… qual è il primo risultato per Strogoff?». E questa volta, mi dispiace, ci arrivo da solo. «vuvvuvvù punto Strogoff punto qualcosa?». Punto it. «Bingo» mi strizza l’occhio. «Ah però… state sopra un personaggio letterario!». «Appunto. E vi dico già che voi starete sopra tutti i mondi felici d’Italia». E qui, altra magia. Mondo non ha staccato lo sguardo dalla strada fuori dalla vetrina dal momento in cui Vargiu ha preso il computer. Ora si è voltato appena e sta sorridendo. Per quanto mi sia fatto un quadro mio di ciò che mi è stato spiegato finora, mi divampa la sensazione che quei due si siano capiti riguardo a qualcosa che Dio solo lo sa. Dio e loro due, ovviamente. La cosa risale a circa tre anni al mese scorso. Ho già perso il conto (Mondo no) di quante visualizzazioni ha collezionato finora il sito web di Mondo Felice.


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Sta di fatto che effettivamente la pagina è di facile individuazione. Difficilmente passa inosservata sia che la si voglia trovare direttamente, sia che si facciano ricerche sulla Maddalena o sui prodotti alimentari biologici e gli store di specialità dolciarie originali. Una volta al mese Vargiu mi chiama per sapere come vanno gli affari (in realtà i primi periodi mi telefonava una volta a settimana). Come vanno gli affari? Ho aperto una piccola succursale a Palau, e al momento sono in trattativa per l’affitto di un locale a Santa Teresa, posso permettermi di sponsorizzare, e le nostre specialità cominciano a essere un marchio riconosciuto. Naturalmente ho tirato dentro un po’ di personale, tutta gente che già conoscevo e di cui mi fido, e abbiamo impostato il lavoro in modo da offrire sempre lo stesso standard di qualità, come ogni azienda che si rispetti. Che a sentirmi parlare così mi viene da pigliarmi a sganassoni da solo, e con la ricorsa, per vedere se mi sveglio col pigiama sudato. E poi c’è una chicca. Specialmente nelle prime telefonate, Vargiu passava più tempo a parlare con Mondo che con il sottoscritto. E il ragazzone mica si sprecava a dire pronto. No, quello la buttava direttamente su Josephine, manco fosse diventata la parola d’ordine per accedere agli archivi segreti dei Dossier del Vattelapesca, che da una parte è grasso che cola perché mi ha scrollato di dosso la minestra riscaldata di questa benedetta ragazza e l’ha rovesciata sulle spalle di Beato Luigi Vargiu. Sto parlando di: «Pronto, Mondo, sono Luigi, come va?» – «Josephine?». Uno se le fa due domande sul perché diamine della cosa. Finché, a un mesetto dall’incontro sul traghetto il Vargiu mi leva il sassolino a modo suo. «Felice, mi ero dimenticato di dirti» con il tono di chi in un mese può aver scalato il K2 in accappatoio, mangiato un’insalata di bosoni di Higgs, bevuto un crodino con Barack Obama, ma di certo non si è dimenticato di dirmi «che sto facendo inserire una directory nel sito in cui gli utenti possono dare suggerimenti e commentare i prodotti e/o il punto vendita compilando un form apposito, lasciando un indirizzo mail tramite i quali essere ricontattati».

«Ah, ottima idea» faccio io grattandomi il retrozucca. «Ti manderò i dati di accesso, così potete visionare i messaggi in entrata voi direttamente, ma non prima di essermi tolto una piccola soddisfazione». E qualche settimana dopo, il perché e il percome mi arrivano anticipati da un sms in cui Vargiu mi avvisa che sta per telefonare e vuole che a rispondere sia Mondo. Ok e tre faccine. Driiin. «Mondo» rullo di tamburi… «ti ho trovato Josephine». Perché naturalmente ogni commento e ogni consiglio è ben accetto. Ma vuoi tu che il tutto non passi temporaneamente in secondo piano quando oltremanica c’è una biondina un po’ esagitata ma tutto sommato graziosa che non trova da nessuna parte le sue adorate barrette al cioccolato e mirto dal retrogusto nostalgico della vacanza ormai archiviata ma perdiana se non cercava il modo di procurarsene una mezza tonnellata per l’inverno incombente e porca miseria Vargiu l’aveva già messo in conto e probabilmente Mondo pure e io sono una testa di rapa? Mondo, giuro, mi crescessero cavolfiori sulle chiappe in questo preciso istante, è saltato sulla sedia e ha urlato urrà. Spedizioni mensili con tanto di corrispondenza amicale assidua e buon appetito a parte, ci siamo potuti concedere il lusso di farci una gita a Birmingham, e il negozietto degli gnomi adesso è tappezzato di foto ricordo di me, Josephine e Mondo, tutti e tre con i rispettivi bordolabbra sempre proiettati più in alto della punta del naso. Abbiamo una novità in catalogo. L’anno scorso, appena tornati dall’Inghilterra, Mondo mi ha tirato fuori la torta Josephine a base di marmellata di fichi. Un altro capolavoro dei suoi. Buon vecchio Mondo. ______________ una produzione Strogoff strogoff.it © Chìmbe - riproduzione riservata



La notte più

lunga di Cristina Soddu

Il boma mi prende la testa, è una botta di quelle che ti arrivano mentre guardi altrove e il tuo corpo ignaro non ha nulla di pronto a riceverla, come se ci potesse essere un modo per prepararsi ad un K.O. Sono sul ring, respiro l’odore di plastica del tappeto bagnato di sudore, la bocca sa di ferro, sento la voce del maresciallo: “Alzati Sandro, stai su”. Chiudo gli occhi, resta un fischio lungo dall’orecchio sinistro. Mi spunta un sorriso laterale, non è stato sufficiente stavolta l’allenamento fatto di scazzottate alle feste. Il sergente Brando, il professionista, mi ha riempito di botte. È lui a segnare la fine della mia carriera pugilistica nell’Arma. “Colpi così forti non ne voglio prendere più”, prometto, mentre il braccio di Brando viene levato in alto dall’arbitro. Alzo gli occhi, intorno a me tutto è fuori controllo, un senso di vertigine, non indugio nel dolore. Chino la testa per respirare. Piove. Tra cielo e mare ora mi affoga il cielo. Il vento è girato a nordest soffiando burrasca stabile, le onde invadono il pozzetto. È notte, i lampi illuminano le nubi basse. La vedo arrivare, è carica, la vela principale è strappata, il vento gira di quindici gradi e le vele ancora tese portano la barca a orzare veloce nella sua direzione. Il primo tuffo sommerge la prua. Non posso mollare il timone, i muscoli tesi, i crampi alle mani, non mollo, mi aggrappo. “Se non si ribalta, ce la faccio”. Afferro il volante, mi sento rigido come un

pilone. “Ma tu lo sai guidare il camion?” Salvatore mi guarda con l’aria di chi sa già la risposta. Capisco che non posso barare troppo, che se voglio il lavoro non posso prenderlo in giro. “In caserma mi è capitato”. Sorride. “Sali e metti in moto”. Le marce grattano da chiudere la gola. Salvatore con nonchalance mi dà due o tre indicazioni. Avanzo cercando di dissimulare l’incertezza dei movimenti, il camion procede, riesco a fare manovra. “Senti Sandro, ma perché hai lasciato i Carabinieri?”. Tiro un respiro. “Quando sono uscito dalla squadra di pugilato dell’Arma mi hanno mandato qui a Montichiari, e a dirla tutta mi ritrovavo più spesso a potare aiuole che a garantire l’ordine pubblico”. Salvatore annuisce. “Sei uno sveglio, dirò al capo che sei un buon autista, ma le prime uscite le facciamo insieme”. Mi allunga una pacca sulla spalla, io lo guardo dritto negli occhi. “Non ti deluderò”. Il vento sembra volermi strappare dalla presa sul timone per buttarmi in mare, ma sono inchiodato, con gli occhi fissi sulla schiuma bianca che sbatte sul lato destro della chiglia, piego di quarantacinque gradi. Gli stralci della vela strappata schiaffeggiano l’albero. È tra le tele più resistenti al mondo. “Se non si ribalta ce la faccio”. Mi sono preparato il discorso un milione di volte, mi ha aiutato anche Marisa. Incontro il capo e le sole parole che riesco a dire sono “Che ne dici

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se anziché guidare il camion provo a venderti un po’ di stoffa?”. Gaetano mi guarda di traverso. “Che c’è, ti sei stancato di fare l’autista? Sei uno in gamba, Sandro, ma, perdonami, tu non distingui il cotone dalla seta”. Mi sfida. “Dammi fiducia, imparo in fretta”. “Ok”, mi risponde, “proviamoci”. Corro da Marisa, la vedo dalle vetrine del negozio, sta sistemando gli scaffali, la abbraccio da dietro. “Sei pronta a farmi da maestra?”. Trascorriamo giorni a toccare, catalogare, prezzare le stoffe più disparate. Mi interroga, e io mi sento come alle elementari quando mi chiedevano le tabelline a salti. Quell’anno vendo merce per un miliardo. Ogni anno il fatturato aumenta, i clienti sono sempre di più, “sono nato per questo”. Sento il giubbotto di salvataggio sempre più pesante, la notte sembra non finire mai. Trovo il modo di incastrarmi tra la panchina e il tavolo, quasi non respiro, ma lì in mezzo posso permettermi di poggiare il peso del corpo per rilassare le gambe, frazioni di secondo, ma sono sufficienti a darmi tregua. Il portellone della cuccetta sbatte, l’ultimo colpo la scardina. “Se non si ribalta ce la faccio”. “Se la pensi così, continua pure senza di me”. Sono le ultime parole che rivolgo a Gaetano prima di chiudere violentemente la porta alle mie spalle. La nostra conversazione è durata ben poco. Mi sono seduto di fronte a lui. “Ho un po’ di idee per innovare, ho trovato nuovi fornitori, stoffe eccezionali, si tratta di fare un investimento, ma sono certo che i nostri clienti ci seguiranno, sarebbe un salto di qualità altissimo”. Gaetano ha scostato la sedia dalla scrivania, si è alzato in piedi e poggiato le mani sul tavolo “Sandro, mi è sempre piaciuto il tuo spirito d’iniziativa, ma ascoltami bene, tu saresti in grado di vendere anche fango, di che ti preoccupi?, stai sereno”. Mentre mi allontano sento solo l’eco del suo “Te ne pentirai”. Cammino veloce, digito il numero di Marisa. “Sei

pronta a venire via con me?”. Lei mi risponde senza esitazione. “Sempre”. La nostra impresa nasce in un garage riadattato a magazzino, con un piccolo Ducato al posto di un tir. Non mi sono mai sentito più felice. Tutti i viveri e i pochi vestiti sono sparsi sul ponte. La stiva è colma di detriti, allungo un braccio per salvare il bidone pieno d’acqua. L’ennesima onda lo spinge lontano nel momento in cui lo sfioro. Ho la gola secca di sale e gli occhi che bruciano. Mi guardo intorno come per cercarti. Marisa. “Se non si ribalta ce la faccio”. “Stavolta non mi vuoi come marinaio?”. Marisa piega la testa di lato. “No, questa traversata la faccio da solo, è troppo lunga e se non ti trovano in negozio le clienti si rattristano, lo sai”. È vero, Marisa è sempre riuscita a far sentire tutti accolti e coccolati. Gaetano doveva a lei una buona parte del guadagno. E quando abbiamo iniziato da soli ha fatto viaggiare il fatturato del nostro piccolo punto vendita come il PIL della Cina. Lei sorride “Sei sicuro di cavartela? Non hai mai fatto un viaggio così da solo”. Gonfio il petto e alzo il mento. “Lo sai che imparo in fretta”. Lei abbassa lo sguardo. “Promettimi che starai attento e che tornerai”. “Te lo giuro”, rispondo senza tentennamenti. Se fosse stata qui, la burrasca me l’avrebbe strappato, il mio marinaio. Visualizzo la nostra casa calda, ci penso per portarmi fortuna. Marisa farebbe così. Si comporterebbe come se questa tempesta fosse già finita, e così il brutto sarebbe già passato. “Se non si ribalta ce la faccio”. “Vedrai che qualcuno arriverà, Sandro”. Il magazzino è stracolmo di chilometri di fodere e di stoffa che per i nostri clienti non è interessante. Non c’è spazio per muoversi, e finché non lo liberiamo non possiamo pensare di acquistare nuovi tessuti. Marisa mantiene la fiducia. “Ne arriverà uno dall’estero, me lo sento”. Tre giorni dopo, un’auto con una targa sconosciuta parcheggia di fronte al piazzale. Si


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chiama Franco, viene dalla Croazia. Ci racconta della guerra che ancora devasta il suo paese. Quando scorge le fodere è entusiasta, per non parlare di quella stoffa “in più”. Vuole tutto. Col suo accento strano ci dice: “Sandro ho solo cinquecentomila lire, ma ti restituisco tutto ciò che manca, torno presto”. Io e Marisa ci guardiamo, quello sguardo è la risposta muta alle nostre domande importanti. L’uomo parte con tutta la merce. Dopo un mese torna coi soldi e l’intenzione di comprare cinque volte di più. Marisa è potente quando desidera fortissimo. Il motore è andato, il pozzetto è colmo d’acqua, il satellitare è in avaria. Sento che questa è la regata della mia vita, quella in cui competo con la forza della natura, con la mia paura. Ho sempre trovato il modo, la via d’uscita, ma mi sento stanco. Ne arriva un’altra, afferro il lungo cavo d’acciaio e mi attacco agli ormeggi. Il timone lo sento ballare, sta per staccarsi, devo metterlo in sicurezza. Tento di fermare la base, sbatto la schiena contro la randa, la pioggia mi offusca la vista, il cavo scorre veloce tra le mani, mi apre i palmi. Sangue. Urlo forte, ma la voce non arriva neanche alle mie orecchie. Il frastuono della tempesta invade tutto. Istintivamente guardo l’orologio che tengo sempre al polso. Il tempo non passa mai. “Se non si ribalta ce la faccio”. Stiamo sotto l’Hotel Baglioni per un tempo imperdonabile. Aspettiamo senza guardare le lancette. Zintra viene dalla Russia ed è la cliente più importante che abbiamo agganciato da quando ci siamo messi in proprio. Quando sale in macchina una scia di profumo accompagna la figura elegante e altera. La accompagniamo nel magazzino, gira tra le stoffe, le tocca come farebbe una mamma che accarezza il figlio addormentato. Chi ama i tessuti è così, si perde al contatto con consistenze e pesi diversi, si inebria dei colori e dell’energia che sprigionano. Zintra capisce che si trova al sicuro, che qui c’è un amore condiviso per ogni pezzatura. Fino alle

due del mattino si aggira in piena trance tra gli scaffali, indicando tutto ciò che vuol portare via con sé. Io e Marisa la seguiamo, dissimulando l’esaltazione. Acquista per settanta milioni di lire. “I confini si sono aperti. Diventiamo internazionali”. Sono le ultime parole che farfuglio prima di crollare nel sonno del giusto. Il vento ha raggiunto i cinquanta nodi, lo scafo è pieno di falle. Non mollo, ho giurato. Arriva da poppa, sbatto la faccia sul timone, la presa è troppo debole per quel mostro di dodici metri. Sono in acqua. Guardo la barca, è ancora vicina, la spalla destra è fuori uso, devo risalire, le gambe sono pesanti, devo risalire, allungo il braccio sinistro verso la scaletta ancora agganciata a una grossa vite, devo risalire. L’ultima spinta, l’acqua mi invade la gola, non respiro, devo risalire, mi sfugge la presa, devo risalire. “Marisa, non ci crederai, la cliente lèttone ha comprato un tir di accessori”. Lei ride, la sua risata è una promessa di cose felici. Non lo sa, ma la prima volta che l’ho udita ho pensato “Questo suono lo voglio sentire per tutta la vita”. Mi abbraccia. “Ti devo dire una cosa”. La scosto. “Sono pronto”. Lei cambia tono, si fa seria. “Mi sento una cosa. Sento che stai per diventare padre”. La sollevo, stringendola fra le braccia. La sento tremare. Non ci diciamo niente, stiamo così, per un tempo che non so. Un’altra spinta, aggancio il braccio alla cima del salvagente assicurato sul lato destro. Un’altra botta, al fianco. Travi spezzate mi feriscono attraverso la giacca. Risalgo. “Se non si ribalta ce la faccio”. ______________ una produzione Vibatex vibatex@pec.it © Chìmbe - riproduzione riservata


i c c e S A n i c i f f uto

i b i S S o p m i ’ l e v o d te


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Dove l’impossibile

non esiste

di Eliana Carrus

Ogni giorno Zoe usciva da casa e la incrociava in giardino. Le piangeva il cuore a vederla in quello stato. Gli anni erano passati, la famiglia non se ne era più occupata e il tempo, implacabile, l’aveva fatta da padrone. Era invecchiata prima del tempo, non si muoveva più, parcheggiata sotto una tettoia, le cui pareti in cannicciato nulla potevano contro il vento, la pioggia, il freddo. Guendalina, la vecchia Fiat Cinquecento che la legava alla madre, venuta a mancare quando lei era appena maggiorenne, riposava sotto un mantello di ruggine. Il tettuccio aveva i lati incurvati, quasi a disegnare una smorfia; i paraurti opachi e tristi, che in tempi passati risplendevano al sole, erano rivestiti da un’orribile puntinatura e sembravano accettare il loro ineluttabile destino; la carrozzeria, o quello che ne restava, era di una tonalità arancione tendente all’ocra; dal cruscotto in lamiera, dello stesso colore, spuntavano orgogliose le piccole levette delle luci; il volante, dall’impugnatura sagomata e sottile, recava al centro il bottone Fiat, ovvero il clacson a trombetta sfiatata. Ma un particolare le faceva venire le lacrime agli occhi, perché la riportava indietro nel tempo: quello che gli appassionati chiamano “odore di Cinquecento”, il profumo degli interni, una particolarità che possiede solo quell’auto. Guendalina aveva portato lei e i suoi fratelli al cinema, al mare, dai cugini, dai nonni. Aveva un carico emotivo così importante che, dopo la scomparsa della madre, né il padre né tantomeno i

fratelli avevano avuto il coraggio di sbarazzarsene, ed era stata parcheggiata in giardino, e lì dimenticata. Vederla in quelle condizioni provocava a Zoe un senso di colpa misto a impotenza, più acuto quando pensava al fatto che avrebbe voluto usarla come macchina degli sposi nel giorno delle sue nozze, alle quali mancava poco più di un mese. Suo padre l’aveva scoraggiata da subito: – Zoe, ragiona: è un rottame, ti rendi conto quanto è difficile trovare un meccanico che ci sappia mettere le mani? Ma Zoe era completamente sorda ai discorsi del padre. Lui non poteva capire cosa significava per lei andare a sposarsi con quell’auto. Sarebbe stato come avere sua madre accanto. Il suo giorno più bello condiviso con chi se n’era andata troppo presto. Anche quella mattina, uscendo da casa per andare in ufficio, Zoe diede un’occhiata a Guendalina e poi via, verso la fermata dell’autobus, presidiata dalla solite facce conosciute. Tutte tranne una: seduto sotto la pensilina, un distinto signore dai capelli ricci e brizzolati le sorrise, abbassando il capo in cenno di saluto. L’autobus, carico di studenti e lavoratori, era puntuale. Zoe salì rapidamente, le porte si chiusero alle spalle e l’uomo col cappello restò seduto a guardarla mentre si allontanava.


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Per Zoe la mattina passò uguale a tutte le altre, fino all’ora di pranzo, trascorsa alla tavola calda dietro l’ufficio, seduta di fronte alla vetrata che affacciava sulla via. Il rumore improvviso di una frenata catturò la sua attenzione. La ragazza non vide alcun incidente, ma il distinto signore brizzolato era in piedi dall’altra parte della strada. Le sorrise ancora una volta, abbassando il capo in cenno di saluto. Poi scomparve dietro l’angolo. Il giorno successivo accadde esattamente la stessa cosa: l’uomo era sotto la pensilina dell’autobus. All’ora di pranzo lo scorse nello stesso punto del giorno prima. Lui le sorrise come sempre, abbassò il capo e girò l’angolo. Fu così pure l’indomani. Il quarto giorno, incuriosita, Zoe decise di parlargli. Forse si conoscevano e lei non si ricordava. Un vecchio amico di suo padre? Inaspettatamente, quella mattina sotto la pensilina l’uomo non c’era e la ragazza ci rimase quasi male. All’improvviso un piccolo mulinello d’aria fece volteggiare delle foglie secche fino ai suoi piedi. Qui, un foglietto di carta giallo attirò la sua attenzione. Era un volantino pubblicitario. “Autofficina Secci, dove l’impossibile non esiste!” Nessun indirizzo. Solo un numero di telefono assai bizzarro: le ultime sei cifre, infatti, corrispondevano esattamente al numero di targa di Guendalina. Una coincidenza incredibile e un tempismo perfetto. Zoe mise il foglietto dentro la borsa, l’autobus arrivò alla solita ora e la inghiottì come la balena di Pinocchio. All’ora di pranzo restò in ufficio e, nel silenzio della stanza deserta, decise di comporre il numero dell’autofficina. – Autofficina Secci, buongiorno, – rispose una voce femminile allegra e squillante. – Stamane splende il sole ed è una bellissima giornata! C’è qualcosa di impossibile che possiamo fare per lei? Zoe rimase ammutolita. – P-p-pronto sì, buongiorno, ecco… Io avrei

bisogno di un preventivo per la mia auto. È una vecchia Fiat Cinquecento, è messa molto male e non so se se sia possibile... – Non fece in tempo a finire la frase che la voce la interruppe. – Qui l’impossibile non esiste! La telefonata durò poco meno di due minuti. Zoe, ancora stordita, si rese conto di aver scritto automaticamente un indirizzo e un orario. Diede uno sguardo allo stradario e.... l’Autofficina Secci era esattamente dietro l’angolo che si poteva scorgere dalla vetrata della tavola calda. Lo stesso dal quale il distinto signore la salutava. “Le coincidenze cominciano a essere troppe”, pensò tra sé e sé. All’uscita dall’ufficio si diresse a passo svelto verso la destinazione. Non si era mai accorta della presenza di un’autofficina, eppure lavorava in quella zona già da un po’. Com’era possibile? Girò l’angolo e prese a camminare lungo la via che andava restringendosi e rabbuiandosi sempre più. Il marciapiede a un certo punto sparì sotto un vecchio muro crollato per metà che rappresentava una sorta di confine invisibile tra la città e il piazzale dell’officina, totalmente illuminato a giorno. Per la terza volta la sua bocca si spalancò in un’espressione di stupore e incredulità: in quel grande spiazzo era parcheggiata una fiammante Fiat Cinquecento, di color grigio. Le cromature erano talmente lucide che ci si poteva specchiare, i piccoli tergicristalli perfettamente allineati, i sedili, di colore marrone, resi impeccabili dalle impunture di filo chiaro. Il pensiero andò subito a Guendalina. Non le importava il prezzo: avrebbe pagato qualunque cifra pur di rendere nuovamente funzionante quella macchina. – È bella vero? L’ho rimessa a nuovo io. Zoe si girò di scatto. Davanti a lei un ragazzo dall’aria simpatica la osservava attraverso un paio di occhiali che lasciavano intravedere un’espressione orgogliosa.


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– L’hai rimessa in piedi tu? Questo è un lavoro da esperti! – Piacere, io sono Diego, – rispose lui sorridendo. – È da almeno un anno che cerco un meccanico in grado di rimettere in sesto la mia vecchia Cinquecento, – disse Zoe. – Tra l’altro lavoro qua vicino, ma non sapevo ci fosse un’officina da queste parti. Siete qui da molto? – L’officina di mio padre è antica, ma siamo qui da poco, – rispose Diego facendo strada all’interno del capannone. – Diciamo che le persone ci trovano quando ne hanno bisogno. Zoe si sentiva stordita ma seguì Diego senza fiatare. Tutto era lindo e luminoso: non una sola goccia d’olio imbrattava il pavimento. – Viviamo in un mondo che tende a disfarsi del vecchio per sostituirlo col nuovo, – disse lui. – Noi invece non abbiamo mai abbandonato il lavoro artigianale, pur lavorando con le auto moderne. Io ad esempio sono un mago della centralina. Vedi questi scaffali? Zoe vide un gran numero di strumenti perfettamente ordinati. Diego glieli mostrò tutti, spiegando dettagliatamente la loro funzione. Li chiamava i suoi “strumenti di diagnosi”. Centinaia di chiavi inglesi erano allineate in ordine di dimensione, con cura maniacale. – Mio padre tiene molto ai suoi strumenti, – disse Diego. – Se gli manca una chiave sono guai. Sembravano i ferri di un chirurgo, e in effetti, in una sala più ampia, una macchina d’epoca e un vecchio trattore erano in attesa d’essere operati da quelle mani esperte. – Quello è il motore del trattore. Mio padre lo ha smontato e ora lo rimette a nuovo. Ci vuole tempo e passione, sai. La meccanica è un’arte. Zoe ascoltava tutte le spiegazioni del ragazzo e notava nel suo sguardo una strana scintilla, quella che impreziosisce gli occhi di chi è orgoglioso del proprio lavoro e ne fa una missione.

Il giorno dopo la vecchia Guendalina venne trasportata all’interno dell’autofficina. Restò sotto i ferri per diciassette giorni. Come per incanto, la ruggine sparì, la carrozzeria tornò al colore originario e gli interni ripresero quel tipico profumo di Fiat Cinquecento. Quando Diego scostò il telone per mostrare il risultato, alla vista di quel gioiello Zoe non riuscì a trattenere le lacrime, e quando sentì lo scoppiettio del motore le sì riempì il cuore di gioia. – Non so veramente come ringraziarvi. Mi avete reso la persona più felice dell’universo! Zoe salì in auto e si diresse all’uscita, fantasticando sull’imminente matrimonio. Alzò lo sguardo verso lo specchietto retrovisore per un ultimo saluto a Diego. Accanto a lui, un uomo col cappello abbassava il capo in cenno di saluto. Alla ragazza parve di riconoscere il signore misterioso. Poi la Cinquecento rallentò per imboccare la strada principale. Zoe guardò lo specchietto una seconda volta e frenò di botto. Si sporse dal finestrino: l’autofficina Secci non c’era più. In quello stesso istante, in un’altra città (che potrebbe essere anche la vostra), il vento faceva arrivare ai piedi di un attempato signore un foglio di carta giallo, un volantino pubblicitario che recava la scritta: “Autofficina Secci, dove l’impossibile non esiste!” Nessun indirizzo, soltanto un numero di telefono assai bizzarro: le ultime sei cifre corrispondevano, infatti, al numero di targa della sua vecchia Spider. Ma questa, ovviamente, è un’altra storia..

______________ una produzione Nuove Officine nuoveautofficinesecci@gmail.com © Chìmbe - riproduzione riservata


In un tardo pomeriggio d’autunno Valerio percorre un delizioso viale di castagni fermandosi a pochi metri da una panchina, dove un novantenne distinto, in abito bianco e bastone in radica, viso abbronzato e ben rasato, si gode gli ultimi scampoli di sole. Il vecchio osserva i ricci caduti ai piedi della panchina. Rivolta il bastone, calcola la traiettoria e ne colpisce uno fino a farlo rotolare dentro una buca. - Maestro Lorenzo. Il vecchio si volta e guarda l’uomo che, in controluce, gli sorride. - Buonasera. Ci conosciamo? - Maestro, sono Valerio. - Valerio? - Valerio Meli. Cagliari Golf Club.

- Cagliari Golf Club? Sì, lo ricordo. Un posto bellissimo, a un passo dal mare. - Posso sedermi accanto a lei? - Prego, accomodati. - Grazie. E di me non si ricorda? Il vecchio osserva i suoi lineamenti, cercando di associare un nome al volto. - Valerio... Valerio… - All’epoca ero un ragazzino. - Eri il figlio del proprietario? - No. Ero un allievo della sua accademia. La Golf Academy. Ho ancora negli occhi il cartoncino che distribuiva ai nuovi arrivati. Sul fronte c’era un dipinto con il Grande Triumvirato. - Ma certo, il Grande Triumvirato. James


Par cinque di Giuseppe Pili

Braid, Harry Vardon e John Henry Taylor. Che tempi. E che uomini. - Già. Dei veri giganti. Ma anche lei, ai suoi tempi. - Per carità, non dirlo nemmeno per scherzo. Ero un discreto giocatore, niente di più. - Ma un insegnante eccezionale. - Mi dispiace non ricordarmi di te, Valerio. Ultimamente ho problemi con la memoria. Raccontami un po’. Come ci siamo conosciuti? - Beh, è passato tanto tempo. Quarant’anni, per la precisione. - Quarant’anni. Una vita. - Quando ci siamo conosciuti ero in prima media. Io e la mia classe eravamo in visita al club. All’epoca lei organizzava dimostrazioni

e corsi per i più piccoli. Diceva che su cento bambini solo un paio si interessavano al golf. E dei due solo uno decideva di continuare. - I bambini hanno sempre amato il calcio. - Beh, io sono stato uno dei pochi che ha continuato. Ed è merito suo. - Ognuno segue le proprie inclinazioni, io sono stato solo un tramite. - Quel giorno ci portò sul campo a provare. Io non volevo esibirmi, ero molto timido, molto insicuro. A scuola mi prendevano in giro perché ero il più gracile e il più goffo. Al momento dello swing mi tremavano le mani, ero sudatissimo. Tutti avevano fallito il primo colpo, ed io ero certo che avrei fatto la stessa figura. Sapevo che i compagni attendevano il mio errore per

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umiliarmi, come sempre. Lei invece mi prese da parte. Lo fece solo con me, come se avesse intuito la mia difficoltà. Mi disse di escludere il resto del mondo, di concentrarmi sulla pallina e di considerare il bastone come l’estensione delle mie braccia. Mi mostrò come impugnarlo e disse: “Hai mai tenuto in mano un passerotto vivo? Non stringerlo così forte da ferirlo…” - “…ma stringilo abbastanza da non farlo volare”. Lo disse Harry Vardon a Francis Ouimet il giorno che si incontrarono. - Esattamente, - replica Valerio, sorridendo. - Poi impose alla classe di restare in silenzio e disse “prendi tutto il tempo che ti serve”. Io faticavo a concentrarmi, sentivo la pressione degli sguardi su di me. Sembravano tutti ostili, era una vera e propria sensazione fisica. Poi, non so come né perché, la mazza si mosse da sola. Si alzò e ricadde, colpendo in pieno la pallina e facendola finire a dieci centimetri dalla bandiera. Ci fu un’ovazione e una marea di applausi. Lei mi sollevò il braccio e disse pubblicamente: “abbiamo trovato la nuova Tigre dei Boschi!”. Fui travolto da un’incredibile corrente di energia, e in quel momento capii che il mio essere maldestro era dovuto alla mia emotività. Ma soprattutto capii che quel limite avrei potuto superarlo. Che ce la potevo fare. - E sei rimasto in accademia? - Non fu così semplice. Il giorno dopo lei telefonò a casa. In famiglia entrava uno stipendio, e tra l’attrezzatura e l’abbonamento mio padre era convinto di non farcela. Mi diceva “è uno sport per ricchi, non te lo puoi permettere”. Così lei ci convocò al club e trascorse un intero pomeriggio insieme a noi. Disse

che credeva nel mio talento e che la spesa non sarebbe stata eccessiva. Poi per convincerlo gli raccontò della sua vita. Di come alla mia età avesse iniziato a frequentare il campo da golf accanto all’azienda agricola di suo padre, il fascino di quegli oggetti così semplici ma così pieni d’ingegno, il rumore dei ferri nella sacca. Raccontò di quando, appena diciottenne, chiese a suo padre di aiutarlo a diventare professionista, e di come lui le impose di laurearsi in economia. Ci raccontò dei suoi tanti lavori, sempre insoddisfacenti, e del ritorno al suo primo amore, la sua unica vera passione: il golf. Gli inizi della sua carriera di istruttore e soprattutto il giorno dell’esame finale su un par cinque, e quella strepitosa buca al quinto colpo, da trentacinque metri, che le valse la qualifica. Maestro Lorenzo fissa l’orizzonte, e una lacrima gli riga la guancia. Prende il fazzoletto dal taschino e l’asciuga. - E tu? Com’è stata la tua vita dopo l’accademia? - Lei mi seguì per qualche anno, mi accompagnò nei primi tornei. È stato il mio caddie quando sono passato al professionismo. Il vecchio sgrana gli occhi. – Sei diventato un professionista? - Sì, grazie alla sua tenacia. Lorenzo abbassa lo sguardo. - Mi dispiace, Valerio. Ho dimenticato tutto, perdonami. La mia testa non funziona come dovrebbe. Che è successo, dopo? - Ho ottenuto qualche buon piazzamento, ma conta poco. Le cose davvero importanti sono quelle che ho imparato da lei e da questo meraviglioso sport. Educazione, controllo, perseveranza,


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stima in se stessi, rispetto della natura e dell’avversario. Forza mentale. Ricordo la frase che diceva sempre “Prima di battere il tuo avversario devi battere te stesso, la tua paura”. Io la mia l’ho battuta. - Sono contento che mi abbia ricordato queste cose, – dice Lorenzo stringendo affettuosamente il braccio del giovane. - Ma come hai fatto a trovarmi qui? A riconoscermi? - Un po’ di fortuna, credo. Un rumore di passi, e poi alle spalle della panchina compare un ragazzo scuro con la divisa da infermiere. Picchietta il dito sull’orologio. - S’è fatto tardi, - dice Valerio. - Devo andare, maestro. Spero di rivederla presto. - Torna a trovarmi quando vuoi. Mi ha fatto davvero piacere parlare con te. La prossima volta voglio che mi racconti in dettaglio tutte le cose che abbiamo fatto insieme. - Certamente. Le auguro una buona serata. I due si stringono la mano e il vecchio segue Valerio con lo sguardo. - Signore, è ora di cena, dobbiamo rientrare. L’infermiere aiuta Lorenzo ad alzarsi, sorreggendolo per un braccio. Il vecchio ha lo sguardo ancora puntato verso l’angolo oltre il quale è scomparso il suo visitatore. - Ahmed, hai conosciuto quell’uomo? - È Valerio Meli, il suo allievo. Viene a trovarla ogni diciotto del mese, ma lei se ne dimentica ogni volta. Sul viso di Lorenzo compare una smorfia di stupore. - Non è possibile.

- Mi dispiace, questa è la sua malattia. La prime volte vi ascoltavo sempre. Conosco a memoria la carriera di quell’uomo. È un vero campione. A diciott’anni ha vinto il campionato britannico per amatori. Decimo all’Open di Turnberry, Silver Medal per il miglior dilettante in gara. All’Open d’Italia è entrato nei primi venti. Al campionato di Wentworth è arrivato decimo. Secondo a Kuala Lumpur. All’open di Singapore ha vinto con un albatross. - Un albatross? È impossibile. - Adesso è un uomo molto ricco. Ha fatto una fortuna con gli sponsor. È lui che paga la sua retta in questa struttura, signore. Da poco ci ha staccato un assegno per dotare l’istituto di un impianto di minigolf. È merito suo, sa? Il vecchio rallenta, si ferma di fronte all’ingresso dell’istituto e inizia a piangere. Poi mette una mano sulla spalla dell’infermiere. - Ho bisogno di un favore, Ahmed. Scrivi questa storia. Voglio poterla leggere ogni giorno, così da riconoscere quell’uomo la prossima volta che viene a trovarmi. - Mi dispiace, io non so scrivere in italiano. Lentamente, il ragazzo guida il vecchio all’interno dell’edificio. Chiude il portone alle loro spalle, soffocando l’ultimo raggio di un sole che muore all’orizzonte dentro un alone amaranto. - Io non so scrivere, signore. Ma conosco qualcuno che può farlo. ______________ una produzione Lorenzo Carrara - Maestro Federale PGA carraralorenzo@libero.it © Chìmbe - riproduzione riservata



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L’armatore di

Castrum Caralis

di Giuseppe Pili

Personaggi: EME TARAS LEONE TARAS, il padre DONNA GINEVRA, la madre DIEGO, RICCARDO E ALDINA TARAS, i fratelli di Eme MARISEL, la serva CADELLO, il capitano IUSUF AL SAFIR, nobile di Làntia GINEVRA, la figlia di Eme (neonata e ragazza) PERSEU, armatore di Castrum Caralis MALHAT, intendente di Opelia CASSITTA, il consigliere di Leone Taras ANSELMO, TOMMASO, GERVASO, e altri marinai Un messo, un cancelliere, alcuni soldati.

La storia è ambientata a Castrum Caralis, ai primi del Seicento.

Scena Prima La sala da pranzo di una lussuosa villa. In scena, la madre (Donna Ginevra), i tre fratelli (Diego, Riccardo e Aldina) e Marisel, la serva. DONNA GINEVRA: (al pubblico) Mio marito Leo sta per rientrare, e la più piccola, Eme, ancora non si vede. Se non la trova a tavola, seduta al suo posto, temo sarà un’altra notte di tempesta. È così irrequieta e volitiva! È tanto simile al padre che questa casa, grande per un esercito, è troppo piccola per contenere entrambi! ALDINA: Madre, non datevi pena. Vedrete che nostro padre arriverà di buonumore, e tutto si risolverà con un lieto desinare. RICCARDO: Di buonumore? Sorella, è come dire che il sole nasce a mezzanotte. DIEGO: Madre, se non temessi di tradire il voto che v’ho fatto, darei io una lezione a quell’impertinente! RICCARDO: Tu? L’ultima volta era lei che t’inseguiva e tu che scappavi. DIEGO: Bugiardo! Noi due faremo i conti quando nostro padre sarà qui.


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RICCARDO: Ecco: il ruolo di spia ti s’addice. DONNA GINEVRA: Non litigate, vi scongiuro. Ah! Quanto vorrei che in questa casa regnasse l’armonia e la pace! Siete diventati grandi, ma non più assennati! Lo so: morirò di crepacuore, e quel giorno mi rimpiangerete, perché nessuno nasconderà a vostro padre le disubbidienze. ALDINA: Non ditelo nemmeno per scherzo, madre! Quel giorno sarà lontanissimo, e arriverà quando tutti e quattro saremo pronti a lasciare questa casa. Entra Leone Taras. LEONE: Quel giorno non arriverà mai troppo tardi. Nel frattempo siete ancora tutti qui, a nutrirvi e vestirvi a mie spese. DONNA GINEVRA: Bentornato, marito mio! Com’è andata la tua giornata? Hai concluso buoni affari? LEONE: ((ai figli, con sprezzo) Cosa vi trattiene? Vi serve una lettera ufficiale? Raccogliete i vostri stracci e varcate quella soglia. Siete grandi per vivere del vostro. Quattro pasti risparmiati, quattro pasti guadagnati. Chi è il primo? Tu, Principessa del Nonposso? O tu, Barone del Lamento? Oppure tu, Conte dello Sbafo? I figli guardano in terra. DONNA GINEVRA: Non avvelenarti, caro. La cena è pronta, non c’è che da sedersi in tavola e rallegrarsi, ché anche oggi il buon Dio non ci ha fatto mancare niente. LEONE: Non Dio, ma il sottoscritto. ((alla serva) Tu, portami del vino. E i miei sandali. ((alla alla moglie moglie)) E tu procura di tenere a bada la marmaglia, così che al mio rientro non debba sentire gli asini ragliare. Ho troppi pensieri per la testa per occuparmi anche dei tuoi figli. (li conta)

Uno, due, tre. Ah! La Regina degli Oppressi è assente anche stasera, vedo. DIEGO: È così, padre. L’avevo avvisata, ma non mi ha dato ascolto: fa sempre ciò che vuole. Fossi in te le impartirei una lezione. LEONE: Vuoi insegnarmi come educare i miei figli? DIEGO: Certo che no, padre. Vi chiedo perdono. LEONE: Portate via il piatto. Oggi la regina digiunerà. La serva porta via il piatto. LEONE: E ora mangiamo in silenzio. E se qualcuno ha da parlare, che sia una cosa seria. Eme entra in scena. EME: Buona sera, perdonate il ritardo. Il maestro ci ha trattenute a fine lezione. DIEGO: Non è vero! Eri a spasso con le amiche! Tutti guardano Leone, che è chino sul piatto e non batte ciglio. Eme bacia la madre e siede al suo posto. Donna Ginevra sta per alzarsi, ma Leone la ferma. LEONE: La locanda chiude alle otto. EME: Bene. Andrò in cucina a preparare qualcosa. LEONE: Se t’alzi da quella sedia giuro che la faccio bruciare. EME: Mangerò in piedi. LEONE: Dovrai farlo senza piatti e senza posate, come l’animale che sei. EME: Ho cambiato idea. Non ho più fame. Mi ritirerò nella mia stanza. LEONE: E dato che ci sei, osserva la consegna per tre giorni. EME: Ne approfitterò per riposare. Leone batte il pugno sul tavolo, e i commensali sussultano. LEONE: Smetti di rispondere! Tutti obbediscono alle mie regole, e tu non fai eccezione! O quant’è vero Iddio uscirai da quella stanza


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solo da vecchia! EME: Avrò tempo per riposare meglio. LEONE: Basta! Quanto vorrei ancora foste alti ancora un metro per farvi assaggiare la mia cinghia! Sparisci! EME: (sarcastica) Vi auguro buon appetito, signori. Eme esce di scena. DIEGO: Una punizione leggera, a mio parere. LEONE: Vuoi farle compagnia? DIEGO: Certo che no. LEONE: Allora svuota il piatto e bada ai casi tuoi. Tutti tornano a mangiare in silenzio.

Scena Seconda Eme è nella sua stanza. Entra Marisel, furtiva, e reca con sé un involto. MARISEL: (bisbiglia) Vostra madre m’ha incaricato di portarvi qualcosa da mangiare. Vi prego, fate in fretta e nascondete tutto. Questa povera schiena non è in grado di sopportare più frustate di quante ne abbia già patito. EME: Grazie, Marisel. Sei un angelo. MARISEL: Oggi lo avete fatto uscire dalla grazia di Dio.

EME: Quando mai quell’uomo è stato nella grazia di Dio? È un tiranno, un uomo senza cuore. MARISEL: Non dite così. Avrà un brutto carattere - chi può negarlo? - ma non vi fa mancare niente. EME: Oh, Marisel… A volte mi sembra che tu sia la bambina ed io la bambinaia. Ma non t’accorgi? Quell’uomo ci nutre come maiali all’ingrasso, e poi – una volta pasciuti – va in giro a vantarsi della sua abbondanza. E senza alcuno sforzo, poiché svuota le tasche dall’oro come un miserabile scuote la sabbia dai sandali. Usa il denaro come un guinzaglio, e l’allunga e l’accorcia a suo piacimento. MARISEL: Fate come fanno i vostri fratelli: ubbidite in silenzio e godete dei privilegi della vostra ricchezza. EME: Mai, finché sono viva. Appena si volta, slegherò il guinzaglio. Entra in scena Ginevra, furtiva anche lei. Marisel esce. DONNA GINEVRA: Anima mia. (si abbracciano) EME: La misura è colma. Devo andar via da qui, quell’uomo mi avvelena la vita. DONNA GINEVRA: Per andar dove? Tuo padre t’ha proibito di studiare in un’altra città, dove pensi di andare, senza un marito? EME: Non ho bisogno di un marito. Lavorerò! DONNA GINEVRA: Si opporrà, lo sai bene. EME: Non ho bisogno del suo consenso. Andrò via da qui, dovessi mendicare sotto i portici di San Francesco. DONNA GINEVRA: Cuore mio… ti guardo e stento a riconoscere la bimba che tenevo in braccio sino a ieri l’altro. So che non posso fermarti, sei più forte di me. Sei quella donna che non sono mai stata, né sarò mai, e ammiro la tua sete di libertà.


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EME: Madre, dammi la tua benedizione. Ne ho bisogno. DONNA GINEVRA: Lo sai che tutto ciò che fai, per me è fatto bene. Solo, sii prudente. Tuo padre può essere un nemico pericoloso. EME: So essere pericolosa anch’io. DONNA GINEVRA: Il giorno in cui andrai via da questa casa, verrà a mancarmi l’aria stessa. EME: Anche se dovessi andare lontano, io non t’abbandonerò mai. Ogni volta che avrai bisogno di me mi troverai al tuo fianco. Le due si abbracciano.

Scena Terza Leone e Donna Ginevra sono nella stanza da letto. Lui è coricato, lei si acconcia per la notte. DONNA GINEVRA: ((al pubblico) Ho paura che Eme possa fare qualcosa di avventato. Quanto vorrei che restasse accanto a me! La sua presenza m’infonde coraggio. Potrei suggerire al mio Leo di prenderla a lavorare con sé, ma mi considera una bambina sventata ed è troppo orgoglioso per accettare il mio consiglio. Devo fare in modo che la decisione la prenda da solo, conosco i suoi punti deboli. (a Leone)

Sono preoccupata, marito mio: Eme mi ha confessato che vuole andar via di casa, e al più presto. LEONE: Si sposa, finalmente? Era ora! Chi è lo sfortunato? DONNA GINEVRA: Niente di tutto questo. Mi ha detto che vuol lavorare al porto. Chiederà a Perseu di prenderla a servizio. LEONE: Perseu? Quel maledetto giudeo? La metterebbe a capo di una flotta solo per vedermi schiumare di rabbia. DONNA GINEVRA: E tutti diranno che Leone Taras è più giudeo d’un giudeo, perché manda la figlia a lavorare per un altro pur di non pagarle un salario. LEONE: Tua figlia è nata per avvelenarmi la vita! Perché mi hai fatto questo torto, donna? Confessa: litigavamo mentre l’abbiamo concepita? DONNA GINEVRA: Forse eri tu in collera con me: io non ho mai avuto un solo pensiero d’odio. LEONE: Perseu! Maledetta intrigante. Mai e poi mai! Piuttosto la prenderò a lavorare con me. DONNA GINEVRA: Dici davvero? Come sono contenta, vita mia! LEONE: Contenta? Credi che la tratterò come la figlia dell’armatore? Nossignore. Le farò fare i lavori più umili, e imparerà la disciplina. È questo che vuole? È questo che avrà. DONNA GINEVRA: Ricordati che è sempre nostra figlia. LEONE: Io non ho figli, ho una casa piena di vipere e sanguisughe. Basta parlare, adesso. Spegni la luce e dormiamo. DONNA GINEVRA: Buonanotte, amore mio. Donna Ginevra spegne la lampada.


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Scena Quarta Al porto di Caralis. Eme, Leone e il capitano Cadello entrano in una stanza misera e disadorna. Eme ha una sacca sulle spalle, e si guarda attorno. LEONE: Questa è la stanza dove mangerai e dormirai, vedi di fartela piacere. Per pagarla lavorerai al molo, rassettando le navi e facendo l’inventario delle merci. Per qualsiasi problema, domanda al capitano Cadello e obbediscilo in tutto. Non t’avvalere della parentela, ché da oggi per me sei un dipendente come gli altri, né più né meno. Hai domande? EME: Sta bene. LEONE: Allora è tutto. Cadello, finite di istruirla. Buona serata. CADELLO: A voi, messere. Leone esce. Eme inizia a svuotare la sua sacca, deponendo gli oggetti sul tavolo. CADELLO: In verità ho visto porcilaie più accoglienti di questa stanza. Che torto hai fatto a tuo padre? EME: A parte venire al mondo? CADELLO: Posso vedere quel libro che hai tolto dalla sacca? EME: Questo? Tenete. CADELLO: “De Rebus Nauticis”. Un ottimo libro,

l’ho letto vent’anni fa. Curiosa lettura per una raschiatrice di legni. Ma forse… ENE: Forse? CADELLO: Forse la raschiatrice di legni, in cuor suo, sogna di diventare ufficiale. EME: Sapete che per una donna è impossibile. CADELLO: L’impossibile è come il confine tra i regni: un limite immaginario. EME: A volte tra un regno e l’altro si stende l’oceano. E comunque preferisco essere realista. CADELLO: Sei giovane. Incontrerai molte persone sul tuo cammino, e molti pronunzieranno la parola “impossibile” per non viaggiare da soli sul carro dei rimpianti. EME: Voi avete figli, capitano? CADELLO: Tre. Perché? EME: Sono fortunati. CADELLO: Curiosa affermazione, per la figlia dell’uomo più ricco della città. EME: Non ci crederete, ma la prima cosa che ho imparato dai preti, ben prima del Padre Nostro, è che il denaro è lo sterco del diavolo. Ed è stato mio padre a mandarmi a messa: non è divertente? Tiene il Vangelo sulla scrivania per non far volare le carte. CADELLO: (ride) ride) Tuo padre è un uomo acuto. Non ride so se l’abbia letto, di sicuro ha ben inteso ciò che del libro ne hanno fatto gli scaltri: uno strumento per piegare all’obbedienza. Ma ora basta con la filosofia, va’ a riposare. Domani all’alba giunge un nuovo carico. Vedi di non tardare, o dovrò punirti. EME: Se dipenderà da me, non ve ne darò mai occasione. Cadello esce. Eme siede sulla sponda del letto e piange.


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Scena Quinta Sulla nave ancorata al porto. Eme, in abiti maschili, è in ginocchio e sta raschiando il ponte con la spazzola. Dietro di lei compare Cadello. Trambusto di marinai. CADELLO: Eme, puoi deporre gli arnesi, adesso. Non dobbiamo riflettere la nostra immagine, dobbiamo solo attraversarlo. EME: (si solleva) Signorsì, capitano. Facevo il mio lavoro al meglio, per farvi cosa gradita. CADELLO: Da quanto sei con noi, ormai? EME: Una primavera e un’estate. CADELLO: Ascolta bene. Fra un paio d’ore salpiamo e ho intenzione di portarti con me a Tarragona. Ho bisogno di un attendente personale. EME: Ma io non sono mai uscita dal porto! Credete possa svolgere un compito simile? Ne siete certo? CADELLO: Dubiti che sappia discernere ciò che è possibile da ciò che non lo è? EME: Dio non voglia, è solo che… CADELLO: Che? EME: Ecco, non sono certa che questa promozione sia merito mio. O del mio nome. CADELLO: Che differenza farebbe?

EME: Per me molta, capitano. CADELLO: Non sono obbligato a risponderti, ma se stai insinuando che mi occorrono favori da tuo padre, metti l’anima in pace: non sei un argomento a cui presterebbe orecchio. Datti una ripulita e indossa una giubba decente. EME: (sorride) sorride) Sissignore. sorride Entra Leone Taras, accompagnato da Donna Ginevra, dalla serva e dal fido Cassitta. LEONE: Buondì capitano. CADELLO: Buongiorno anche a voi, messere. I miei omaggi, Donna Ginevra. Avvocato. LEONE: Siete pronti a salpare? CADELLO: È tutto pronto: ottanta botti di Monica, quaranta casse di muggini e orate, cento orci d’olio del Parteolla. A mezzodì saremo al largo, alla volta della Spagna. LEONE: (si si volta verso Eme Eme) E tu che ci fai ancora a bordo? Non hai faccende da sbrigare giù al molo? Ti pago per oziare sul ponte? CADELLO: Le ho chiesto io di restare a bordo, monsignore. L’ho appena nominata mio attendente. LEONE: Lei? Cadello, mi meraviglio di voi. Pensavo foste un uomo assennato. Una donna a bordo! CADELLO: È attenta, precisa, e impara alla svelta. LEONE: E ubbidisce altrettanto alla svelta? E misura le parole? CADELLO: Mai avuto da ridire. LEONE: A ognuno il suo mestiere: vi auguro che non dobbiate pentirvene. CASSITTA: Messer Leone, c’è da discutere di quel certo affare. LEONE. Giusto. Venite Cadello, devo parlarvi in privato.


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Leone, Cassitta e Cadello escono. Donna Ginevra si affretta ad abbracciare la figlia. EME: (si si ritrae ritrae) Non vorrete sporcare quel meraviglioso abito! DONNA GINEVRA: Che m’importa? Vieni qui! (la la stringe forte forte) Come ti trattano? Mangi abbastanza? Raccontami tutto. EME: Sto bene. Il cibo è passabile e ho imparato a cucinare. So badare a me stessa, anche se i primi tempi è stata dura. Qui non sono abituati ad avere una donna intorno, si divertono a provare la mia resistenza. Dalla mia bocca non esce un lamento: non voglio dare soddisfazioni. Sto imparando a non contare sugli altri, men che meno su vostro marito. DONNA GINEVRA: Hai rinunciato a chiamarlo padre? EME: Restituisco l’amore e il rispetto che mi si presta. Il capitano mi ha preso a benvolere, e questo basta e avanza. DONNA GINEVRA: Non ti mancano i tuoi fratelli? EME: Non più di quanto io manchi a loro. DONNA GINEVRA: Non dimenticare la tua famiglia, te ne prego. EME: La mia famiglia sei tu, lo sai. Devo andare, adesso. È il mio primo viaggio e staremo via a lungo. Ti prego, non stare in pena. Marisel: distoglila dai pensieri più cupi. DONNA GINEVRA: Non fare niente di avventato, mi raccomando. Oh, che consiglio sciocco t’ho appena dato! Che madre inutile che hai. Tieni il mio crocefisso, ti proteggerà. (si leva la catenina e la pone al collo di Eme Eme) EME: (si abbracciano) Non me ne priverò un istante. Addio! Eme esce con un cenno di saluto.

Scena Sesta In mare aperto. Eme sta attraversando il ponte della nave con una gavetta in mano. Tre uomini della ciurma, Tommaso, Anselmo e Gervaso, le sbarrano il passo. TOMMASO: Toh! La favorita del capitano. Da quando ha il suo bell’incarico d’attendente ci ignora come fossimo della peggior feccia. EME: Fate largo. Il capitano mi attende. ANSELMO: Non capisco perché si ostini a tenerla a bordo. Le donne dovrebbero stare in camera da letto, a scaldare le coperte. GERVASO: O accanto al focolare, a rammendare i calzini. EME: Anche se volessi, non potrei rammendare i tuoi. Sei così miserabile che spacci per calzini la crosta che t’insudicia le caviglie. Tutti ridono. ANSELMO: Ricordate l’anno scorso, nei pressi di Maiorca, quando la chiglia ha raschiato il fondo? Scommetto venti cagliaresi che è stata lei a portarci sfortuna. Nessuna delle navi della compagnia ha avuto un simile incidente. GERVASO: Quando mai hai avuto venti cagliaresi tutti insieme, balordo? È ovvio: nessuna delle altre navi ha una donna a bordo.

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TOMMASO: Hai ragione. Se la diamo in pasto ai pescecani dite che qualcuno se ne avrebbe a male? ANSELMO: Io dico di no. Anzi, ci ringrazierebbero. EME: Se invece ti buttassi io mi ringrazierebbero i pescecani, visto quanto sei grasso. Tutti ridono. ANSELMO: Mi piace questa donna, ha più attributi di te, Tommaso. TOMMASO: A me no, mi ricorda mia suocera. GERVASO: Perlomeno tua suocera ha sembianze di donna. ((allunga allunga le mani verso Eme Eme)) Io vorrei togliermi il dubbio una volta per tutte… Entra Cadello e i tre si ricompongono. CADELLO: Immagino abbiate un buon motivo per impedire all’attendente del capitano di svolgere la sua mansione. ANSELMO: Sì, capitano. Cioè no, capitano. CADELLO: Che ne dici di un ripasso della disciplina? Potrei rinfrescarti la memoria con venti frustrate, ad esempio. Guardami negli occhi, Anselmo. Non ti avevo avvisato? ANSELMO: Sì, capitano. CADELLO: E tu, Tommaso? Non dovresti essere in cambusa? Che ci fai qui? Due chiacchiere con le amiche? Vuoi che ti porti una tazza di tè? TOMMASO: N-No, capitano. CADELLO: E tu, Gervaso? Pendaglio da forca… Ho l’impressione che sia passato troppo tempo da quando hai assaggiato la frusta. Ti prude la schiena, è così? GERVASO: Potendo, ne farei volentieri a meno, signore. CADELLO: È tanto che la ciurma desidera svagarsi. Una fustigazione come Dio comanda ci manterrà allegri per il resto della traversata.

TOMMASO: Capitano, pietà. EME: In verità, signore, la colpa è solo mia. CADELLO: Tua? Spiegati. EME: M’è caduto un cucchiaio dietro la botte, non riuscivo a spostarla e mi hanno aiutata. Li ho ringraziati, una parola tira l’altra, e siete arrivato voi. CADELLO: Anselmo, è andata così? ANSELMO: Ecco, noi… GERVASO: È così, capitano. Non si faceva niente di male. Solo due parole scambiate per cortesia. TOMMASO: Sì, sì, per cortesia. CADELLO: Molto bene. Attendente Taras, stasera salterai la mensa. Cenerai nella tua stanza, a razione minima. Quanto a voi tre, dileguatevi, perché l’idea dello spettacolo mi solletica ancora. I tre esclamano sissignore ed escono. CADELLO: C’era anche questo, sul tuo libro? Era questa la vita che immaginavi? EME: È quella che ho scelto, capitano. E quando decido qualcosa è difficile che torni indietro. Lo so, non è un lavoro per donne, ma son nata storta: il pregiudizio mi spinge a fare l’inverso. Lotto per dimostrare quanto valgo, e non saranno gli insulti e le offese a farmi desistere. CADELLO: Ho saputo che tuo fratello Diego è il nuovo amministratore della compagnia. EME: È il primo maschio, era deciso alla nascita. CADELLO: Mi dicono che sappia di commercio e navigazione quanto io so di cucina. EME: L’invidia non è un sentimento che conosco, capitano. Gli faccio i miei auguri, ne avrà bisogno. Quando mio padre gli lascerà in eredità la compagnia, io avrò la mia.


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CADELLO: Vorrei che la metà dei miei uomini avesse la metà della vostra tenacia. Adesso chiudetevi in cabina o la ciurma penserà che vi concedo privilegi. EME: Signorsì signore. Cadello esce. Dopo un attimo rientra Anselmo. ANSELMO: Anselmo non dimentica un debito di venti frustrate. Se qualcuno ti molesta, fa’ un fischio e mi troverai al tuo fianco. Anselmo esce. Eme sorride.

Scena Settima Sulla nave ormeggiata nel porto di Tarragona. Eme è da sola, sul ponte. Legge una lettera. EME: “Figlia mia, luce dei miei occhi, è trascorso un anno dal nostro ultimo abbraccio, e mi pare un secolo. Di più: una vita. Il mare ti tiene lontana, e le nostre lettere sono un blando conforto, ormai. Certo, trovo sollievo nelle mie piccole passioni e in quelle attività che mi tengono fuori casa, ma il mio cuore è sempre agitato. Mi chiedi di aggiornarti sulla situazione: niente è cambiato in meglio, tutto in peggio. Tuo padre non ha occhi che per i suoi affari e le sue donne. Alcune le ho conosciute, e non posso biasimarle: paga loro i conti e hanno bimbi da crescere. So che

ti manderà su tutte le furie, e hai ragione, ma l’amore mi governa a suo piacimento, ed io poco o nulla posso. Dimmi di te. Nessuno ha ancora fatto breccia nel tuo cuore? Quanto vorrei stringere tra le braccia un nipotino! Con infinita nostalgia, la tua sciocca madre.” Entra Cadello in compagnia di Iusuf Al Safir, vestito da ricco signore. Eme ripone la lettera in petto. CADELLO: Eme, vi presento messer Iusuf Al Safir, nobile rappresentante della città di Làntia. Si trovava qui a Tarragona, ma ha degli affari a Caralis, e ci ha chiesto un passaggio. Messere, questo è il mio ufficiale di rotta, Eme Taras. IUSUF: Onoratissimo. Ho sentito parlare molto di voi. EME: Benvenuto a bordo, messere. Spero facciate buon viaggio. Una nave da cargo non ha le comodità che si addicono a un uomo del vostro rango, ma faremo del nostro meglio per accomodarvi. IUSUF: Vi ringrazio. CADELLO: Vi lascio, le incombenze mi reclamano. Cadello esce. IUSUF: Il capitano mi ha confidato che siete la figlia di Leone Taras, il padrone della nave. È così? EME: A bordo lo sanno in due, voi compreso. E spero che il segreto rimanga tale, se non vi spiace. La mia vita è già complicata a sufficienza. IUSUF: Capisco. Potete fare affidamento sulla mia discrezione. La fama che precede vostro padre è ingombrante: mi domandavo se per voi fosse un fardello o, al contrario, un lasciapassare, ma mi avete già risposto. EME: Quella fama se l’è guadagnata sul campo, ed io non mi attribuisco ciò che non mi spetta. Quisque faber fortunae suae. Non vivo nella

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sua ombra, e calco il ponte della sua nave solo per imparare il mestiere. Cos’altro vi ha confidato, il capitano? IUSUF: Che siete una donna dalle mille risorse. Che siete salpata come mozzo, e a metà viaggio eravate già ufficiale. Che godete del rispetto della ciurma. EME: La reputazione è una brezza: ora spira in una direzione, ora in un’altra, poi cessa all’improvviso. Non è bene farci affidamento. IUSUF: Molto saggio. Sapete, qualcuno qui a bordo v’immagina nelle vesti di comandante di un legno tutto vostro. Ne eravate al corrente? EME: Per essere appena arrivato ne sapete più di me, messere. IUSUF: A ognuno il suo talento. Il mio è quello di stare in mezzo agli uomini e far tesoro dei loro atti e delle loro parole. EME: Visto che siete curioso, vi dirò: il capitano è buono con me, ho raggiunto un ottimo grado, ma qualcosa mi spinge a desiderare di più. Vorrei una nave mia, vorrei poter decidere del mio destino. Se si presentasse l’occasione non rinuncerei di certo. IUSUF: Che altro vi serve? Fate un cenno a vostro padre e avrete un’intera flotta al vostro comando. EME: (ride) ride) Voi non lo conoscete. E non conoscete ride me. IUSUF: Non volevo essere indiscreto, perdonatemi. Ammiro le donne che non si accontentano. Siete così anche in fatto di uomini? EME: Forse un giorno avrete occasione di scoprirlo. Adesso state parlando con l’ufficiale di rotta, e ogni risposta sarebbe inopportuna. IUSUF: Touché, direbbero i francesi. Comunque, sappiate che io non dispongo di grandi somme, ma conosco delle persone che

sarebbero liete d’investire in una nave che moltiplica le ricchezze a fronte d’un rischio così basso. Specie se condotte da qualcuno di provata esperienza. Quando deciderete di fare il grande passo, ricordatevi di me. EME: Forse prima di quanto pensiate.

Scena Ottava Caralis, nell’ufficio di Leone Taras. Lui è alla scrivania. Cassitta fa entrare Iusuf. CASSITTA: Messer Al Safir è qui, monsignore. È quell’uomo che ha chiesto di vedervi, ricordate? LEONE: Ah, sì. Fatelo entrare. IUSUF: Lieto di conoscervi, Messer Leone. Il mio nome è Iusuf Al Safir. Vengo dalla città di Làntia, e sono a Caralis da qualche mese. LEONE: Siete qui per affari? IUSUF: In parte, sì. Dipende da cosa s’intenda per affari. LEONE: Gli unici affari che conosco sono quelli che riempiono le tasche. Ne conoscete altri? IUSUF: Quelli che riguardano l’amore, ad esempio. LEONE: (divertito) Amore? Siete sicuro che io possa fare qualcosa per voi? IUSUF: Non siete Leone Taras, l’armatore?


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LEONE: Certamente. Arrivate al punto, dunque, perché queste chiacchiere mi confondono. IUSUF: Non sono un esportatore, ma ho comunque una proposta da farvi. Sono qui per chiedere la mano di vostra figlia. Ci frequentiamo da tempo, e nutriamo del reciproco affetto. LEONE: Ah! Comunque la giriate, sempre di affari si tratta. IUSUF: Solo le ragioni del cuore mi guidano al vostro cospetto. Ve lo giuro su quanto ho di più caro. LEONE: Le ragioni del cuore! (ride) ride) Vedete, messere, ride potrei credere alle ragioni del cuore se mia figlia s’appressasse all’altare priva di dote, ma il caso vuole che sia fra gli eredi del mio impero, e questo – per un uomo di senno – certamente ha un peso. Non mostratevi più ingenuo di quanto siete, o mi renderete più sospettoso di quanto non sia. IUSUF: Che ci crediate o no, tutto ciò che avete testé illustrato è per me di secondaria importanza, dal momento che amo vostra figlia. Ma poiché non voglio apparire sciocco ai vostri occhi, sono qui per presentarmi, cosicché vi rendiate conto della sostanza dell’uomo con cui trattate. LEONE: Ammesso che voi riceviate il mio consenso, e questo è tutto da vedere, ditemi: cosa mettete sul vostro piatto? IUSUF: Porto un nome di antico lignaggio, un nome che a Làntia è sinonimo di nobiltà. Uno scambio equo agli occhi di chiunque. LEONE: Caro signore, farò prendere informazioni su di voi. Nel frattempo, accontentatevi del permesso di corteggiare la mia Aldina. IUSUF: Aldina? LEONE: Non siete venuto a chiedere in sposa la mia figlia maggiore?

IUSUF: Temo vi sia un equivoco, messere. Io ero qui per vostra figlia Eme. LEONE: Eme? (ride) ride ride) IUSUF: Trovate la cosa così buffa? LEONE: Ci sarebbe più di un motivo per ridere. Ditemi: siete venuto di vostra sponte, non è così? IUSUF: Lei non sa ancora niente. Perché me lo domandate? LEONE: Perché se glielo aveste chiesto, dubito che vi avrebbe dato il suo consenso. IUSUF: E perché mai? Non siete voi a dovermi dare il consenso? Non siete forse suo padre? LEONE: Mi sembra chiaro che lei non vi apre del tutto il suo cuore, messere, poiché non vi ha parlato di me. Eme non mi è più figlia di quanto non lo siate voi. Per cui, se la volete, non dovete far altro che pigliarvela. Ha deciso di fare di testa sua e non riceverà alcuna dote da suo padre, sappiatelo. IUSUF: Non è più vostra erede? LEONE: Affatto. Io la disconosco. Trambusto. Entra Eme. EME: ((a Iusuf ) Giù al porto mi han detto che ti avrei trovato qui. Parlavate d’affari? IUSUF: Sono venuto a fare il mio dovere. Ho chiesto ufficialmente la tua mano. EME: Senza consultarmi? IUSUF: Sono affari da uomini. LEONE: Adesso sono affari! (ride) ride ride) EME: Al Safir, tratti le donne come merci da stipare sulle navi? È questo che devo credere? IUSUF: Ma io… LEONE: ((ad ad Eme Eme)) Troppo tardi. Ha già avuto il mio consenso. Unitamente alle mie condoglianze. EME: ((aa Leone Leone)) Taci, non sto parlando con te! ((aa

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Iusuf) Vai, adesso. Ti raggiungerò a breve e tratteremo la faccenda. IUSUF: ((aa Leone Leone)) Col vostro permesso. LEONE: Opponete resistenza, messere! La puledra è selvaggia, rispetta solo chi la doma! Iusuf esce. LEONE: E così ti sposi, finalmente. Poverino, lo compiango. EME: È l’occasione per dirti che da oggi non lavoro più per te. Ho stretto un accordo con qualcuno che mi aiuterà a governare una nave tutta mia. E ti farò concorrenza. LEONE: Una nave tutta tua? E chi è il pazzo che affiderebbe la propria nave a una donna? EME: Il tuo caro amico Perseu. Copriremo la tratta da Calaris a Làntia. Grazie al mio futuro marito abbiamo l’esportatore e il contratto firmato. LEONE: Mai! Làntia è cosa mia! EME: Adesso dovrai dividerla con me. E sappi che la mia nave è talmente veloce che nel giro d’un mese nessun commerciante vorrà più trasportare con te. LEONE: Sta’ attenta. Se dovesse accadere, prenderò le misure. EME: Che puoi farmi, che non mi abbia già fatto? LEONE: Ci sono talmente tanti modi per ferirti che, se li elencassi, a metà m’imploreresti di smettere. Ti conosco, e so dove affondare la lama. EME: Ovvero? LEONE: Uno schiocco di dita e licenzierò il tuo caro capitano Cadello. EME: Gli farete un favore. Perseu non vede l’ora di prenderlo con sé. LEONE: Pensi che potrebbe pagarlo quanto lo pago

io? No, anzi: ora che ci penso ho un’idea migliore. Sposterò la nave di Cadello sulla rotta per Làntia e vi metterò in concorrenza. EME: Fai ciò che vuoi, non m’importa. Non abbiamo più niente da dirci. (fa fa per uscire uscire) LEONE: Fermati! EME: Cos’altro c’è? LEONE: Sei sicura di ciò che stai per fare? EME: Com’è certo che domani il sole sorgerà all’alba. LEONE: Se lo farai, sappi che ripudierò tua madre. EME: Un momento. (si ferma, torna indietro) Ho sentito bene? Tu avresti il coraggio di fare una cosa simile? LEONE: Disubbidiscimi e butterò fuori di casa lei e le sue cose. EME: Sai quanto tenga a quella casa, è tutto il suo mondo. Ne morirebbe. LEONE: Hai sentito bene e hai compreso. La scelta è tua. EME: No, non lo faresti. Per quanto irragionevole, lei ti ha sempre amato, e ancora ti ama. E tu non ne troveresti un’altra così devota. LEONE: Donne che mi amano ne ho a frotte. Mi basta un solo giorno per dimenticarla. EME: Sei peggio di un cane. Sei senza cuore. LEONE: Cuore, dici. Oh, che cosa poetica, il cuore. Un organo inutile, per quanto mi riguarda. Da piccolo – anch’io son stato piccolo, per quanto t’appaia strano – avevo il cuore in petto e le tasche vuote. Non sono nato ricco come te, che hai tempo per vaneggiare sul cuore. Mia madre metteva i figli nel cassetto perché non aveva letti. A suon di calci la vita m’ha aperto gli occhi, e ho capito come funziona il mondo. Così, un bel giorno, ho infilato una mano in bocca, ho estratto


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il cuore e l’ho messo in tasca. Ed eccomi: l’uomo più potente e temuto della città. Col mio denaro ho pareggiato i conti, distrutto i nemici più potenti e innalzato alla gloria mere nullità. Tutti quei pomposi messeri che van millantando cariche importanti sono i burattini del mio teatro, e son sempre io a decidere i finali delle storie, se non mi garbano. E tu mi capisci più di quanto non ammetta, perché nei tuoi occhi vedo la stessa fame, la stessa ambizione. Un giorno farai anche tu la mia scelta, è solo questione di tempo. EME: Mai! Non diventerò mai come te! Ti disprezzo con tutta me stessa! LEONE: Non rinnegare il tuo sangue. EME: È putrido, e corrompe ciò che tocca. Mi farei

dissanguare a morte, se riuscissi a levarmi dal corpo l’ultima goccia di te! Tocca mia madre e ne pagherai le conseguenze! Eme esce. LEONE: (grida grida verso Eme Eme) Non ho bisogno di toccarla! CASSITTA: Monsignore, intendete davvero ripudiare vostra moglie? LEONE: Anni al mio servizio e ancora non mi conoscete, caro Cassitta. Per vincere farei qualsiasi cosa. Scena Nona Porto di Caralis. Eme e Iusuf sono a bordo di una nave, in compagnia dell’armatore Perseu. Conducono un giro d’ispezione. PERSEU: È una bellissima nave, non potete negarlo. EME: Sembra solida, ve lo concedo. Allora, quanto ne volete? PERSEU: Varrebbe trenta carichi, ma a voi la darò per venticinque. EME: A cosa devo lo sconto? PERSEU: A un’immagine che mi rende felice: le budella di vostro padre che si contorcono come le anguille di Giorgino. EME: Affare fatto. PERSEU: Naturalmente verrà intestata al signor Al Safir qui presente, poiché voi, allo stato delle cose, non siete in grado di offrire adeguate garanzie. Vostro padre non vi coprirebbe. EME: No di certo. Ha diffidato i banchieri di Caralis dal farmi credito, e quelli mi hanno messo alla porta. Io e messer Al Safir abbiamo stipulato un accordo verbale, la sua famiglia farà da garante. IUSUF: Un accordo verbale che vale cento volte più


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di uno scritto, mia cara. PERSEU: Sono contento per voi. Per quanto mi riguarda invece, perdonate la mia grettezza, ho bisogno della firma di messer Al Safir in calce a questo contratto. Le sue garanzie sono solide, e nel caso non doveste onorare i patti, Dio non voglia, saprò a chi rivolgermi per recuperare l’investimento. IUSUF: Date a me, monsignore. Firmerò con piacere. Iusuf firma. EME: Quando potrò conoscere il mio equipaggio? PERSEU: Che v’importa, mia signora? Son marinai scelti. Una volta a bordo seguiranno i vostri ordini. EME: Presumo che voi non vi circondiate di estranei, a casa vostra. È sempre bene conoscere la tempra di chi vi sta a fianco. Sapete come si dice: prevedere è meglio che provvedere. PERSEU: Più vi osservo e più mi sembrate nata per il comando. EME: Lo dite solo perché da una donna vi aspettate lagne e piagnistei. Mi ricordate mio padre. PERSEU: Lo dico perché so riconoscere ciò che ho di fronte. E ora perdonatemi signori: devo scappare. Perseu esce. IUSUF: Ho un buon presentimento. Questo è il primo frutto della nostra unione. EME: E il secondo arriverà molto presto. IUSUF: Non dirmi che tu…? EME: Sì. IUSUF: (le le pone una mano sul ventre ventre) Sposiamoci, seduta stante, prima di affrontare il nostro primo viaggio.

EME: Che bisogno c’è di rendere formale ciò che proviamo l’uno per l’altra? IUSUF: Non t’importa di ciò che pensa la gente? EME: Meno di niente. Ma se dovessi farlo, lo farei perché me lo chiedi. IUSUF: (le prende la mano) Ebbene, te lo chiedo: Vuoi sposarmi? EME: Non senza il consenso di mia madre. Attenderai sino a quel momento? IUSUF: Tutto il tempo che sarà necessario. Si abbracciano.

Scena Decima Sulla nave, durante il tragitto per Làntia. Iusuf e tre marinai sono nell’alloggio del comandante e giocano a carte. Entra Eme, visibilmente incinta. EME: T’ho cercato dappertutto. Dovevo immaginarlo che eri qui. All’ingresso del comandante, i tre marinai scattano in piedi. IUSUF: Seduti, seduti. Mia signora, cosa posso fare per te? EME: La vedetta ha avvistato un banco di nuvole all’orizzonte. Si prevede una tempesta. IUSUF: Che sarà mai? Ne attraversiamo una ogni viaggio. La pioggia ci laverà il ponte.


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EME: Stavolta è diverso. IUSUF: Sei sempre catastrofica. Non succederà niente, stai tranquilla. EME: Tranquilla? Non credi che dovremmo prepararci al peggio? IUSUF: Ma sì, ma sì, amore mio. Adesso terminiamo questa partita e siamo tutti per te. EME: Ho bisogno di questi uomini, subito. E ti avevo chiesto di non chiamarmi “amore” di fronte all’equipaggio. IUSUF: Scusa, mio comandante. Possiamo finire, adesso? EME: ((ai marinai) Voi tre, in coperta. I marinai scattano in piedi. IUSUF: Seduti, ho detto. Finiamo la partita. (i marinai rimangono in piedi tra i due, interdetti) Hai detto che sono all’orizzonte, no? Abbiamo tempo. EME: Ti ricordo che su questa nave non sei tu il comandante, né il comandante in seconda. Per cui lascia andare questi uomini. IUSUF: Ti ricordo che sono il proprietario, e questi uomini sono al mio servizio quanto al tuo. Un fortissimo tuono scuote tutti. EME: Allora forse è meglio che ti ricordi che non sai nuotare. IUSUF: Va bene, va bene. (butta le carte sul tavolo) Andate a fare il vostro dovere. I marinai escono. EME: Quando, e se, arriveremo a Làntia faremo un lungo discorso, io e te. IUSUF: A proposito di cosa? EME: Del tuo impegno nella nostra società. IUSUF: Il nostro matrimonio è diventato un affare, adesso? Mi sembra di sentire tuo padre. EME: Non confondo mai i sentimenti con gli affari.

E sono certa di non essermi sposata per interesse. Tu lo sei altrettanto? IUSUF: Che vorresti dire? EME: Che hai fatto per noi, a parte mettere una firma su un contratto e piantare quel seme che sta crescendo qui dentro? IUSUF: Cosa potrei fare a bordo di una nave? Lo sai che sono un uomo d’ingegno, non un uomo d’azione. Quando mi hai sposato non avevi dubbi. EME: Ed io prima di conoscerti non ero incinta. La vita ci chiede di cambiare, Iusuf. A me sembra d’esser la sola disposta a farlo, e a perdere qualcosa. IUSUF: Adesso un figlio è una perdita? EME: Ne riparleremo quando sarai incinta. IUSUF: Sai cosa penso? Penso che ci vorrebbero più donne come tua madre, abituate a dare senza chiedere nulla in cambio. EME: Ed io penso che ci vorrebbero più uomini degni di questo nome. Forse abbiamo affrettato le cose. Forse non siamo fatti l’uno per l’altra, come credevamo. Dici sempre che ho paura di morire povera, tu invece fai di tutto per non morire ricco. Forse navighiamo in direzioni opposte. IUSUF: Non è così. Ti mostrerò che stai sbagliando. EME: Smentiscimi a fatti, non a parole. Un altro tuono scuote tutti. EME: Questa conversazione è durata anche troppo. Salgo in coperta. Se vuoi fare la tua parte, sali anche tu. Eme esce. IUSUF: Agli ordini, comandante. (riprende le carte e le mescola)


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Scena Undicesima All’interno della nave, ancorata nel porto di Làntia. Nel disastrato alloggio del comandante, Eme sta scrivendo una lettera. Accanto a lei c’è un fagotto con la piccola Ginevra. EME: Madre adorata, da due settimane io e il mio equipaggio siamo bloccati a Làntia e soltanto ora trovo il tempo di scriverti. Una grande sventura si è abbattuta su di noi: a poche miglia dalle coste dell’Africa la nave ha incrociato una tempesta, un fulmine ha rovesciato l’albero maestro e ho perduto due uomini. Abbiamo raggiunto il porto, ma, in tutto questo, la mia unione con Iusuf ha fatto naufragio. In passato c’erano stati litigi, se ben ricordate, perché io mal sopportavo il suo sperpero di denaro. Pensavo d’aver trovato un sostegno, invece avevo accanto un fanciullo che non è in grado di badare a se stesso. All’arrivo a Làntia ci siamo separati e lui è tornato dalla sua famiglia. Ho giurato a me stessa che non permetterò mai più a un uomo di deludermi. Con l’equipaggio stiamo cercando di riparare i danni alla nave, ma temo ci vorranno settimane prima di affrontare il ritorno. Il morale è basso, ma io continuo a dissimulare, cosicché i miei uomini non abbiano a pentirsi d’essersi affidati al comando di una donna. Vi confesso

che spesso sogno di tornare a rifugiarmi nel vostro grembo, a piangere sui miei fallimenti. Ricordo che dicevate: ‘alla fine tu riesci sempre, solo che per te è tutto più complicato’. Avevate ragione: qualsiasi strada prenda, alla fine si rivela sempre la più tortuosa. Come vi tratta quell’individuo che vi ostinate ad amare aldilà di ogni saggio consiglio? Mandatemi vostre notizie prima del mio rientro, cosicché possa affrontare il viaggio a cuor leggero. Vi abbraccio con tutto l’amore di figlia. (coccola la bimba) Post scriptum: vi porterò una sorpresa che vi riempirà di gioia. Sorrido già nel figurarmi la vostra espressione. Trambusto fuori scena. Irrompe un messo di Làntia e due soldati. MESSO: Siete il comandante di questa nave? EME: Chi vi ha dato il permesso di salire a bordo e di violare la mia cabina? MESSO: Dolente, questa non è più la vostra cabina. Ecco il documento che certifica che la nave è stata venduta, e il nuovo proprietario la vuole sgombra prima di mezzogiorno. Metà del vostro equipaggio è già a terra. Devo chiedervi di seguirci. EME: (legge il documento, poi al pubblico) Iusuf! Quel vigliacco! Ha messo la nave all’asta e l’ha venduta al miglior offerente! Traditore! Non poteva compiere un’azione più vile, e nel momento peggiore. ((al messo) Concedetemi un attimo di solitudine per raccogliere le mie cose. MESSO: Vi attendiamo fuori. Il messo e i soldati escono. EME: ((alla bimba) Tutto è perduto, dunque. Sono sola, in una città sconosciuta, con una bimba da accudire, senza denaro… che può


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accadermi ancora? Soltanto il tuo sorriso mi impedisce di abbandonarmi alla disperazione e lasciarmi morire qui, adesso. Eme prende in braccio la bimba, la bacia e fa per uscire. Si ferma sulla soglia per guardare un istante la cabina, poi esce.

Scena Dodicesima Al porto di Làntia, sul molo. Eme tiene in braccio la piccola Ginevra. È appena sbarcato il capitano Cadello. EME: Finalmente un volto amico! Grazie per essere venuto! CADELLO: Come stai? E la bimba? EME: È accaduta ogni sorta di disgrazia, vi racconterò. Ma… vedo che la nave che vi ha condotto qui non è di mio padre.

CADELLO: Non lavoro più per lui. Mi ha licenziato dopo la tua partenza. EME: Ha mantenuto la minaccia! Devo confessarvelo, capitano: è colpa mia. Adesso il mio debito con voi è aumentato a dismisura. CADELLO: Non darti pena, se non m’avesse preceduto l’avrei fatto io stesso. Mi baloccavo da tempo con l’idea di ritirarmi. Non godo di buona salute, e sono troppo vecchio per sopportare allo stesso tempo una ciurma indisciplinata e i capricci dell’armatore. EME: Ditemi: che notizie avete di mia madre? CADELLO: Ti preannuncio che di buone – ahimé – non ne reco. EME: Di che si tratta? Non fatemi stare in pena. Su, parlate! CADELLO: Ecco, lei… EME: Sì…? CADELLO: Meglio abbreviare: tua madre è venuta a mancare, qualche giorno fa. EME: Non è possibile! CADELLO: Non volevo essere io a darti questa notizia. EME: Tenete la bimba, vi prego. CADELLO: ((afferra il fagotto) Sedetevi. EME: (siede in terra) Com’è stato? CADELLO: Un dispiacere, forse. Pare non abbia sopportato l’onta d’esser stata ripudiata. EME: Ripudiata? CADELLO: Vostro padre l’aveva confinata in un alloggio poco fuori città. EME: È la catastrofe. Mia madre messa alla porta e allontanata dai suoi affetti… Quel demonio ha mantenuto le promesse, ha ferito la

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donna che lo amava più di ogni altra cosa al mondo. (si guarda attorno) Un prete! Perché non c’è un prete quando serve? Voglio guardarlo negli occhi e farmi ripetere che questo mondo è governato dalla giustizia divina, prima di sputargli in faccia. Cento volte maledetto. Ma no: l’unica da biasimare sono io! Mi ero illusa che non sarebbe arrivato a tal punto. CADELLO: Tuo padre non è più in sé. Agisce in preda all’impulso e all’astuzia dei cattivi consiglieri. EME: Non sento più le forze. Il burattinaio m’ha tagliato i fili. CADELLO: Animo, adesso. Su, sollevati. Eme si alza, come un automa. CADELLO: Dov’è quella donna capace di tenere in pugno un equipaggio? Richiamala, ne abbiamo bisogno. Avrai tempo di riflettere durante il viaggio, e ti raccoglierai in te stessa una volta a casa. Sistema le tue cose e richiama gli uomini. Terrò io la bimba. T’ho portato del denaro per sistemare i sospesi. Non è molto, ma spero che basti. Salperemo entro un’ora. Cadello esce. Eme tira fuori la catenina e stringe il crocifisso. EME: Non dovevi farmi questo. Non adesso, non mentre ero così lontana. Avevamo mille cose da dirci e mille cose da fare insieme… Mi lasci assetata di te, del tuo sguardo, delle tue carezze. La mia bimba aveva bisogno del tuo affetto, e se non ne avessi avuto a sufficienza per entrambe, mi sarei fatta da parte, pur di vedervi felici insieme. Volevo abbracciarti e chiederti perdono per tutte le volte che ho dubitato di te, per tutte le volte che ti ho condannato quando anteponevi l’amore per tuo marito al mio bene. Sono stata egoista.

Forse non ti meritavo, ma se il prezzo per avere la madre migliore del mondo è stato avere il padre peggiore, io quel prezzo l’ho pagato. Eme si piega su se stessa.

Scena Tredicesima Caralis. Eme entra in casa Taras con Ginevra in braccio. Marisel le va incontro e si abbracciano. MARISEL: Signore Iddio ti ringrazio! Quanto mi siete mancata! Mostratemi questo angelo! Chi è? Chi è questa meravigliosa creatura? EME: (le consegna la bimba) Era il dono per mia madre. MARISEL: Come l’avete chiamata? EME: Come lei. MARISEL: ((alla bimba) Sei la sua immagine, piccola Ginevra. Era una donna meravigliosa, lo sai? Bella e raffinata, come sarai anche tu, un giorno. EME: (si guarda attorno) Non c’è nessun altro in questa casa, oltre te? MARISEL: Vostro padre e messer Diego sono in ufficio, e gli altri…


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EME: Che c’è? Non aver timore di parlare. MARISEL: Mia signora, da quando vostra madre non c’è più, in cielo sia, padron Leone è peggiorato. Non ha più freno, tratta i figli come mendicanti, adesso da’ e subito dopo toglie, e quelli hanno smesso d’agire, poiché non sanno quale azione potrebbe compiacerlo e quale irritarlo. Li ha privati della forza d’opporsi, e padron Diego, per la frustrazione, fa il despota con gli altri. E quelli… una non può più camminare e l’altro è infermo di testa. Una è reclusa nella propria stanza, l’altro non è mai in casa, per evitar le dispute. Voi non avete idea dell’abisso in cui siamo precipitati da quando Donna Ginevra non è più tra noi. Per fortuna siete tornata! EME: Non sono qui per restare, Marisel. Giusto il tempo d’un saluto. La mia permanenza è sgradita a tutti. MARISEL: E il padre di questa bimba? Chi è? Dove si trova adesso? EME: L’inferno se lo porti. Sta pregando di non incrociarmi per la strada. MARISEL: Ma se non qui, dove riparerete? Lei ha bisogno di un tetto. E voi anche. EME: Ho il mio alloggio al porto, finché non troverò di meglio. Posso contare su di te per la cura della bimba? Quando tornerò per mare Ginevra avrà bisogno di una seconda madre, ed io di te soltanto mi fido. MARISEL: L’accudirò come l’avessi partorita io stessa. EME: Dimmi di lei: c’è qualcosa che ha detto, qualcosa che ha fatto prima di lasciarci? MARISEL: Andavo a trovarla nella nuova casa, dove viveva in solitudine. Non l’avrei abbandonata per niente al mondo, lo sapete. Che posso dirvi? Si struggeva per lui ogni attimo della

sua giornata, piangeva il perduto amore, non faceva che ricordare il passato. Pensate: cucinava i piatti preferiti di padron Leone e m’incaricava di portarli alla sua tavola. Ma lui… EME: Lui..? MARISEL: Li gettava via assieme al piatto, senza riguardo per quel gesto d’amore. EME: Basta, non voglio sentire altro. Ho fatto male a domandare. La ferita è fresca e il coltello è ancora dentro. MARISEL: Prima d’andarsene, una parola per voi Donna Ginevra l’ha avuta. EME: Che t’ha detto? MARISEL: ‘Falle giurare di non odiare suo padre’. EME: Ah! Non posso giurare! MARISEL: Questo era il suo ultimo desiderio. EME: Il suo ultimo desiderio mi dilania l’anima! MARISEL: Nessuno più di me vi conosce, Eme, e vi ricorda. Da piccola adoravate vostro padre. Era come il sole, per voi. EME: Può darsi. Ma adesso la sua presenza oscura il vero sole. MARISEL: L’odio non è che amore rovesciato. Entra Diego. Le due donne s’interrompono. DIEGO: Al porto dicevano d’averti vista tornare. EME: Come vedi. DIEGO: Ora che lei non c’è più, non hai alcuna ragione di stare qui. Non ha lasciato niente per te: tutto ciò che possedeva è proprietà di nostro padre. EME: Non agitarti. Non sono qui per reclamare nulla. DIEGO: Meglio così. Lui vuole vederti. EME: Suona come un ordine. DIEGO: Sai com’è fatto.

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EME: Sarà un ordine per te, che spazzi con la lingua la terra su cui posa i piedi. Per me è lo squittio di un ratto. DIEGO: Vuole offrirti un impiego. EME: A me? Sei certo d’aver compreso bene? DIEGO: Te ne accerterai di persona. Ti attende in ufficio. Diego esce. EME: Mi mette ancora alla prova. Cosa nasconde adesso? Vuole ottenere il perdono per un peccato imperdonabile? No. Gli attribuisco un’umanità che non possiede. MARISEL: Ricordate le parole di vostra madre. EME: (riflette) riflette) Ascolterò quanto ha da dire, poi si riflette vedrà.

Scena Quattordicesima Caralis. Nell’ufficio di Leone Taras. Lui è alla scrivania, tra le sue carte. Alle sue spalle, Cassitta. Entrano Eme e Diego. LEONE: Dicono che hai avuto una bambina da quel cacciatore di dote. EME: Dicono che hai venduto casa di mia madre il giorno stesso del funerale. LEONE: Come sta mia nipote?

EME: Non è affar tuo. Se hai qualcosa da dirmi fai presto. Le tue espressioni d’affetto son formule vuote, e mi irritano. LEONE: Siedi e ascolta attentamente. Ho trovato un nuovo esportatore, a Opelia. L’ho convinto ad aprire le sue merci al mercato di Calaris. Sfortunatamente la gilda degli armatori ha imposto restrizioni sulle tratte, perciò nessuno dei miei comandanti può recarsi laggiù. Ho deciso di affidarti la rotta, altrimenti sarà Perseu a occuparla, e voglio che tenga le zampe lontane da quella costa. Nessuno deve sapere che lavori per me, anzi: più parlerai male di tuo padre, più allontanerai il sospetto. Non ci sarà alcuno scritto, solo un patto fra noi. Cosa rispondi? EME: Che non ho il denaro per comperare una nave. LEONE: La nave la metto io. Ne ho giusto una che fa al caso tuo. Tu provvedi a reclutare l’equipaggio e a conquistare la tratta. CASSITTA: Mia signora, il commercio della frutta esotica è in ascesa. Si prospettano guadagni oltre ogni immaginazione. Non avrete difficoltà a restituire il dovuto. EME: (indica il fratello) Se questo commercio è così vantaggioso, perché non l’affidi a lui? LEONE: Tuo fratello? Appena usciti dal porto la ciurma lo getterebbe fuori bordo. DIEGO: Ma padre… LEONE: Taci. Ringrazia che ti pago per fare il lavoro che fanno i tuoi sottoposti. ((aa Eme Eme)) Ti dò un giorno per riflettere. Domani alle nove portami la risposta. Se fosse ancora qui, tua madre ti consiglierebbe di accettare. EME: Ti proibisco di nominarla! LEONE: Certo, ti capisco. Sei addolorata, mi attribuisci le colpe, ma non puoi


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comprendere. L’ho amata anch’io. A modo mio, ovviamente. Sono un uomo difficile, non lo nego, ma ho altri mezzi per esprimere il mio affetto. Scendi in strada e chiedi al primo passante cosa pensa Leone Taras di sua figlia Eme. Diranno che non fa che lodarla pubblicamente, e che si vanta d’aver per figlia l’unico comandante donna della flotta di Caralis. Adesso mi odi, ma quando la tua bimba sarà grande comprenderai il valore del mio insegnamento. Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto per educarti al lavoro e alla rinuncia. Non avrei sopportato che crescessi come una bambina sciocca e viziata. Non sono io il tuo nemico. EME: Se hai finito coi discorsi lacrimevoli torniamo agli affari. Accetto l’offerta. Anche se non per le ragioni che credi. LEONE: Molto bene, allora. Sigliamo questo accordo da gentiluomini. Leone allunga la mano verso Eme, lei rimane immobile. Lui la ritira. EME: Era quella la mano con cui ti sei cavato il cuore dal petto? O è quella che ha spinto mia madre fuori di casa? Ah no: forse è quella che ha reso infermi i miei fratelli. E io dovrei toccarla? Stringerla, addirittura? LEONE: È solo un accordo, non ti ho chiesto di amarmi, né di perdonarmi. EME: So che hai in mente qualcosa: un’aquila non bruca. Quanto a me, non sono nelle condizioni di trattare. Ma ti restituirò sino all’ultimo centesimo. Non voglio avere debiti con nessuno, men che meno con te. LEONE: Hai preso la decisione giusta. Eme esce. DIEGO: Ma padre! Trattarmi così! Di fronte a lei! LEONE: Usa la testa, tieni a bada le emozioni, e non

anteporre mai le ragioni del cuore a quelle della borsa. Tua sorella prenderà la rotta, la farà fruttare e fra un anno al massimo tratteremo Opelia senza di lei. CASSITTA: Se posso permettermi, monsignore, l’illustre Machiavelli sarebbe fiero di voi. LEONE: Il vostro illustre Machiavelli è morto povero.

Scena Quindicesima Al porto di Calaris, Cadello si aggira sul ponte della nuova nave. Trambusto di marinai. Entra Eme. EME: Buon giorno capitano. Pronti a salpare per Opelia? CADELLO: Quale onore: l’armatore che affianca il comandante. EME: È il primo viaggio, e non mi ritengo più armatore di quanto lo siate voi. CADELLO: Allora siete a bordo in veste di comandante. EME: Come posso chiedere al mio maestro di farmi da secondo? Voi rimarrete sempre e comunque il mio comandante, per cui sono costretta a fregiarmi del primo appellativo. CADELLO: Ed io sono contento di lavorare per voi.

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EME: Era il minimo che potessi fare per ripagarvi. E comunque, vi consento di darmi del voi solo in presenza dell’equipaggio. CADELLO: Hai dunque fatto pace con tuo padre? EME: Non è la pace: è una tregua. Lo conosco troppo bene. La nostra vita è costellata di lunghi conflitti e brevi riconciliazioni. Come posso spiegarvi? Immaginate un gatto che si trastulla con un topo. Lo blocca con una zampata, e quando quello smette di correre, tasta se è ancora vivo, e se non si muove ne cerca un altro. Quanto a me, tutto ciò che chiedo dalla vita è un poco di serenità. Piuttosto, avete trovato gli uomini che vi avevo chiesto di cercare? CADELLO: Dovrebbero essere già qui. Il primo l’ho scovato in una bettola che faceva a pugni con gli avventori, l’altro l’ho tirato giù dal letto di un bordello, l’ultimo l’ho pescato all’angolo di una strada che implorava un piatto di minestra. Non capisco perché li hai voluti a bordo. EME: Il destino mi ha sempre offerto una seconda occasione, nel bene o nel male. Ed io, per ripagarlo, non voglio esser da meno. Non siete d’accordo? CADELLO: Quando il giovane parla da maestro, il vecchio deve tacere e ascoltare. Entrano Anselmo, Tommaso e Gervaso, trafelati, coi fagotti sulle spalle. ANSELMO: Perdonateci, mia signora. Perdonate anche voi, capitano. Abbiamo raccolto i nostri stracci in fretta e furia per non perdere l’imbarco. TOMMASO: (baciando baciando la mano di Eme Eme) Grazie, mia signora, grazie. Erano mesi che nessuno ci prendeva con sé. Dubitavamo d’essere appestati a nostra insaputa.

GERVASO: Fidatevi: non vi deluderemo! EME: Aspettate a contare la paga, prima di ringraziare. I primi tempi saranno duri, ho da ripagare questa carretta, e tutti dovremo tirare la cinghia. ANSELMO: La mia l’ho tirata talmente tanto che, comunque vada, grazie a voi dovrò allentarla. TOMMASO: Io una cinghia non l’ho mai indossata, figuratevi. GERVASO: Ed io sono contento per una volta di non prenderla sulla schiena. Per cui, come vedete, siamo tutti vostri. CADELLO: E allora che ci fate ancora qui? Ai vostri posti, canaglie. I tre escono al volo. Entra Marisel, con la bimba in braccio. MARISEL: Eccoci, mia signora, vi ho portato la bimba prima della partenza, come avevate chiesto. EME: (prende in braccio la bimba, la bacia, la restituisce) Abbi cura di lei, mi raccomando. restituisce E tienila lontano dai miei fratelli e da mio padre. Anche se qualcuno dovesse tentarti col denaro. MARISEL: Non temete, non correte alcun pericolo: a che serve il denaro a una come me? Ho raggiunto l’età in cui si baratta il denaro con l’affetto, e mi siete rimasta soltanto voi. Fate buon viaggio. EME: Addio Marisel. (bacia la bimba) Addio anima mia, tornerò presto. Marisel e Ginevra escono. EME: ((a Cadello) Lo dico io o lo dite voi? CADELLO: È il primo viaggio. A voi l’onore. EME: (grida ai marinai fuori scena) Due uomini al cabestano! Sollevate l’ancora! Issate le vele!


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Scena Sedicesima A Opelia, città d’Oriente. Eme e Cadello entrano nel lussuoso ufficio di Malhat, l’intendente al commercio. Lui va loro incontro, sorridente. MALHAT: Benvenuti nel mio umile ufficio, gentili ospiti. Accomodatevi. CADELLO: (si guarda intorno) Ciò che per voi è umile, Malhat, da noi è lusso sfrenato. MALHAT: Non prestate caso alle formule di cortesia, capitano. È il profumo che ricopre il tanfo dei nostri commerci. L’ipocrisia lubrifica gli ingranaggi della società che vuol dirsi civile. Non è così anche da voi? CADELLO: Tutto il mondo è paese. MAHLAT: Donna Eme, finalmente ho il piacere di conoscere la figlia di colui che è stato uno dei nostri più ricchi importatori. EME: Conoscete mio padre? Sono sorpresa, non sapevo avesse già coperto la tratta di Opelia. Mi ha dato ad intendere che per lui era un nuovo commercio. MALHAT: Immagino dunque che non v’abbia parlato del suo debito. EME: Mi avete convocato per estinguere un debito

di mio padre? Sappiate che io non lavoro per lui e non ho alcuna voce nei suoi affari, né diritti sul suo patrimonio. MALHAT: Non allarmatevi, abbiamo raccolto le nostre informazioni. Eravamo solo curiosi di conoscere di persona la donna che, senza meno, ci renderà tutti più ricchi. Si parla bene di voi, e non dubito che la nostra intesa durerà a lungo. EME: Vi ringrazio, lo spero anch’io. Ditemi, per curiosità: a quanto ammonta il debito di mio padre? MALHAT: Nel vostro conio? Alla grossa, quattrocentomila cagliaresi. EME: È una somma enorme. MALHAT: Avevamo stoccato le merci giù al porto, in attesa delle navi di vostro padre. Navi che non sono mai arrivate, perché lui le aveva già vendute. Come potete immaginare, nell’attesa il carico è andato a male, e i produttori hanno chiesto il conto a quest’ufficio. I giudici stanno ancora dibattendo il caso, anche se io sono uomo di mondo, e confido di averli persi. EME: Temo rimarrà un debito insoluto. Potrebbe saldarlo in qualsiasi momento, ma lasciar debiti è il modo che ha mio padre di tenere i creditori al guinzaglio. Mi dispiace per voi. MALHAT: Lo confesso: ho sempre ammirato vostro padre. Esistono pochi uomini al mondo in grado di concludere un affare con lui senza avvertire all’atto della firma la sgradevole sensazione d’esser stati depredati. Lui ha elevato la pirateria a sublime forma d’arte, e l’ha spostata dai flutti dell’oceano ai corridoi delle banche. EME: Anche voi siete un artista, Malhat: sulle vostre labbra le offese hanno parvenza di lodi.


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MALHAT: (sorride) sorride) Vedete, per vendicare i torti sorride subiti occorre essere più potenti del proprio nemico, ed io non lo sono, per cui tutto ciò che mi è concesso è fare buon viso a cattivo gioco: le persone che adesso disprezzo, domani potrebbero essere i miei migliori alleati. CADELLO: Molto previdente. MALHAT: (riempie i bicchieri) Ora, se non vi dispiace, volgiamo lo sguardo verso i lieti propositi: domani salperà il primo carico, che Allah lo protegga. Brindiamo al nostro accordo. Lunga vita e prosperità. Caralis e Opelia sempre alleate! Brindano.

Scena Diciassettesima Caralis, nell’ufficio di Leone Taras. Lui è dietro la scrivania. Dietro, Diego e Cassitta. Entra Eme. EME: Signori. LEONE: Accomodati, mia cara. La piccola Ginevra è in salute? Sta crescendo? Dovrebbe avere un paio d’anni, giusto? Parla già? EME: Ti avevo pregato di non interessarti alle mie vicende personali. LEONE: Perdonami, l’avevo dimenticato.

EME: Posso conoscere il motivo di questo incontro? Ho fatto rapporto al tuo avvocato due settimane fa, quanto t’ho restituito la sesta rata della nave. LEONE: Giusto di questo volevo parlarti. EME: Qualcosa che non va? L’intendente Malhat non fa che lodarmi, e a quanto ne so fa il bagno nell’oro guadagnato col nostro commercio. LEONE: Va tutto a meraviglia, la tratta rende il triplo del previsto. Il fatto è che abbiamo pensato di cambiare i termini del nostro accordo. Tuo fratello ha rinegoziato la nostra posizione con la gilda degli armatori e quindi con l’intendente Malhat. EME: Ebbene? DIEGO: Da oggi con Opelia trattiamo direttamente noi. EME: Noi chi? DIEGO: La compagnia di Leone Taras. EME: Non capisco. Che significa? LEONE: Significa che ci riprendiamo la nave che ti abbiamo dato in prestito. EME: In prestito? Me l’avevi data per occupare la tratta! Ed io te ne ho pagato la metà! LEONE: Diciamo che la considero una quota d’interesse sull’utilizzo. EME: Credi che Opelia voglia fare affari con te? Hai un debito, o l’hai dimenticato? Ed è anche piuttosto consistente. DIEGO: Con Malhat ci siamo accordati: salderemo il debito e riprenderemo i nostri traffici. CASSITTA: (porge ad Eme un documento) Ecco il contratto d’esclusiva che annulla il vostro, firmato dall’intendente. EME: (legge il documento) Non posso credere che abbia fatto una cosa del genere. (getta il documento) Che uomo è un padre che manda


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in rovina la propria figlia? Tu non ti rendi conto della tua follia! E la cosa più grave è che nessuno di loro ha il coraggio di dirti che sei pazzo! LEONE: Sai perché Perseu ha il naso storto? EME: Perseu? Che c’entra Perseu? Stai vaneggiando! LEONE: Te lo racconto io. Un giorno, quando eravamo due monelli di strada, Perseu mi confidò che il padre, per istruirlo ad affrontare la vita, lo mise sul primo gradino di una scala e disse: “Salta, che ti prendo”. Lui obbedì, e il padre lo afferrò al volo. Lo mise sul secondo gradino e gli fece cenno di buttarsi. Qui cominciava a temere l’altezza, ma poiché si fidava del padre, anche stavolta saltò tra le sue braccia. Quello lo mise sul terzo gradino e gli ordinò di saltare ancora, cosa che fece. Al quarto gradino il padre si scostò e lui finì sul pavimento, battendo la faccia e rompendosi il naso. Mentre sanguinava e piangeva, il padre lo rimise in piedi e disse: “Così impari: mai fidarti di un ebreo, neanche se è tuo padre”. Tutti ridono, tranne Eme. EME: (con disprezzo) Ci penserà il tribunale a stabilire chi ha ragione. LEONE: Con un documento da sottoporre alla corte avresti udienza. Ma le parole volano. DIEGO: Hai perso, Eme. Rassegnati. Eme fa per uscire, ma si volta. EME: Nonostante tutto, non riuscirete a farmi diventare come voi. Esce.

Scena Diciottesima Eme è di fronte al suo equipaggio, schierato sul ponte della nave ancorata al molo di Caralis: Cadello, poi Anselmo, Tommaso e Gervaso in prima linea. Dietro, i marinai. EME: Lo sapete, ormai: il tribunale mi ha tolto questa nave. Com’è uso, mio padre ha ordito le sue trame, e ha vinto. Ogni individuo di questa città gli deve qualcosa: va a caccia coi giudici della corte, la maggior parte sono suoi amici, e di quelli che non sono amici ha comprato il silenzio. Ed io… evidentemente non sono abbastanza scaltra per fare il mio mestiere. Forse aveva ragione chi diceva che una donna deve stare a casa a rammendare, ma voi mi conoscete, e so che l’immagine di me coi calzini in mano vi suscita il buonumore. (risate risate sommesse sommesse) Vi ringrazio per aver condiviso con me il buono e il cattivo tempo, le vele spiegate e la bonaccia. Durante i nostri viaggi ho avuto modo di conoscervi, apprezzare le vostre virtù, ammesso ne abbiate, e detestare i vostri difetti. Di ognuno di voi conosco vita, opere e miracoli, manco foste dei santi, e so che mi mancheranno le vostre ciarle e le vostre risa. Il mio futuro è incerto, ma voi non dovete temere per il vostro: mio padre mantiene


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sempre l’equipaggio che ha fatto buon uso della sua nave. Tra poco saliranno a bordo i nuovi proprietari. Io non ci sarò, per cui rivelerete a loro le vostre intenzioni. Spero avremo occasioni più liete per rivederci. Buon vento. Eme stringe la mano di Cadello, fa un cenno di saluto all’equipaggio ed esce. Gli uomini sono a capo chino, avviliti e in silenzio. CADELLO: ((all’equipaggio) Signori, ognuno di voi ha una famiglia e delle bocche da sfamare. Nessuno più di me comprende il momento, ma voglio esortarvi a pensare unicamente al vostro bene. Qualsiasi sia la vostra scelta, nessuno potrà biasimarvi, Donna Eme per prima. Entrano Leone Taras, accompagnato Diego, da Cassitta, dal cancelliere del tribunale e da due soldati. CANCELLIERE: (svolge una pergamena) In nome del Viceré di Sardegna, illustrissimo Juan Vives de Canyamás, barone di Benifayró, per ordine del tribunale di Castrum Calaris, si comunica che, a seguito della controversia tra messer Leone Taras e la di lui figlia Eme, vagliati tutti i documenti in possesso delle parti, e sentite tutte le testimonianze, si dispone che codesta nave debba essere considerata, a tutti gli effetti di legge, proprietà del qui presente messer Taras Giovanni Leone, cittadino emerito di Castrum Caralis, indi per cui: ogni bene che si troverà a bordo a partire da questo momento, compresi gli effetti personali che non verranno fatti sbarcare, sarà proprietà del summenzionato messer Taras. In data 13 aprile, anno del Signore 1624. Firmato: illustrissimo giudice Diego De Serra. DIEGO: (si fa avanti) Grazie, cancelliere. Signori, la nave non cambierà i suoi traffici né la sua

destinazione. Voi conoscete bene ogni legno e ogni cima di questa nave, e conoscete altrettanto bene la rotta per Opelia, per cui la compagnia dà a ognuno di voi l’occasione di rimanere a bordo. Ciò detto, adesso – uno per volta – partendo dal capitano e scendendo di grado, ognuno dichiarerà il proprio intento. Capitano, un passo avanti, dite il vostro nome e il vostro grado. CADELLO: Capitano Francesco Cadello. DIEGO: Capitano, volete rimanere a bordo in qualità di comandante? CADELLO: (riflette in silenzio, poi) Messere, come attestano le rughe sulla mia fronte, ho raggiunto quell’età per cui sarebbe saggio per un uomo abbandonare il mestiere nelle mani di giovani capaci e di grandi ambizioni. Ho lavorato per voi a lungo, adesso ho messo da parte un gruzzolo tale da garantire una vita serena per me e la mia famiglia, sino alla mia dipartita. Ho deciso di abbandonare la navigazione e darmi alla vita contemplativa, alla preghiera e alla coltivazione di ortaggi, in particolar modo il carciofo, di cui sono ghiottissimo. I marinai ridono. DIEGO: La mia era una domanda seria, capitano. CADELLO: Chiamo a testimoni i miei uomini: io non scherzo mai sui carciofi. I marinai ridono. Leone avanza, e scosta indietro il figlio. LEONE: Capitano, sapete bene che trovare un comandante valido la metà di voi e assemblare un nuovo equipaggio ci costerebbe una fortuna, per cui vi raddoppio l’offerta. E, beninteso, la raddoppio anche ai vostri uomini. (I marinai rumoreggiano). Quanto vi dava, mia figlia?


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CADELLO: Non ricordo esattamente, monsignore. L’età mi gioca brutti scherzi. LEONE: Badate al vostro tono. Fate la commedia per alzare il prezzo? CADELLO: In verità non conosco il mio prezzo, messere. Dovreste chiedere a mia moglie, è lei che si occupa di queste cose. I marinai ridono. LEONE: Silenzio! Se credete che sarà facile ottenere nuovi incarichi alla vostra età, vi sbagliate di grosso. CADELLO: Anche voi, se credete che ogni uomo abbia un prezzo. Alcuni uomini non sono in vendita, e quelli che lo sono, a mio parere non sono uomini. LEONE: Risparmiatemi la vostra filosofia. Chi è il nostromo? Si faccia avanti. Anselmo fa un passo avanti. ANSELMO: Sono io, monsignore. LEONE: Qual’era la vostra paga? La triplicherò. ANSELMO: Monsignore, io e i miei compagni di ventura siamo molto sensibili alle questioni di denaro, non possiamo negarlo. LEONE: Allora siete l’uomo che fa per me. Potrei addirittura proporvi come comandante in seconda. Cosa decidete? ANSELMO: Il guaio è che il capitano Cadello qui presente ci ha implorato di aiutarlo con l’orto. Io, ad esempio, mi occuperò delle zucchine, il cambusiere è il nostro attendente alle cipolle, e l’ufficiale di rotta laggiù è il responsabile delle melanzane. (i marinai ridono) Il resto della ciurma ha un ortaggio a testa, per cui siamo dolenti, monsignore: a bordo di questa nave non rimarrà nessuno. LEONE: (stizzito)) Sgomberate la nave. ((a Cassitta) Prendete i nomi: questi marinai non

troveranno più lavoro a Caralis. Leone esce, seguito dal resto del comitato. TOMMASO: E per Donna Eme e il capitano Cadello… La ciurma esclama tre volte urrà e lancia i berretti in aria.

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Epilogo Cimitero di Caralis. Marisel e Ginevra (ormai una ragazza) sono accanto alla tomba di Donna Ginevra. La ragazza ha una rosa in mano. GINEVRA: E quindi tutto l’equipaggio si rifiutò di andare col nonno? MARISEL: Tutti, dal primo all’ultimo. Vedi, quegli uomini volevano bene a tua madre, perché, nonostante la sua severità, lei li aveva sempre trattati, appunto, come uomini. GINEVRA: E cosa è successo dopo? MARISEL: Tuo nonno mise insieme un altro equipaggio, ma nel frattempo l’intendente Malhat venne allontanato, e Opelia non volle più trattare con la compagnia. Il capitano Cadello, Dio l’abbia in gloria, morì un paio di anni più tardi, se lo portò via il tifo. Grazie alla sua reputazione tua madre riuscì ad ottenere un prestito da una banca importante e comprò la sua nave più veloce: l’Azzurra Freccia. Richiamò il vecchio equipaggio e scelse Anselmo come comandante. Con quella nave trovò la rotta per Junda e guadagnò tanto da comprarne altre due. Quando acquistò la casa dove vivi ora, mi chiese di lasciare padron Leone e di seguirla. Da allora non vi ho più abbandonato. (dopo un silenzio) A che pensi? GINEVRA: Penso alla nonna, alla sua vita. E a quello che ha passato la mamma. Marisel, tu credi davvero che il denaro sia capace di queste cose terribili? MARISEL: Tesoro, il denaro illude gli uomini di poter disporre dell’anima altrui. Ma l’anima è come questo fiore: se ne recidi lo stelo si secca e muore. Perciò, se tu vuoi veramente bene a qualcuno, impara a lasciarlo libero d’essere ciò che è.

GINEVRA: Ma è proprio vero che sono nata su una nave, durante quella notte di tempesta a Làntia? MARISEL: Io non c’ero, questo è ciò che mi ha raccontato tua madre. Non ci credi? GINEVRA: Anche se non fosse del tutto vero, il tuo racconto era molto bello. Un suono di sirena dal porto. MARISEL: Si fa tardi, anima mia. È già l’imbrunire. La sirena annuncia l’Azzurra Freccia che rientra in porto. Tua madre sta tornando a casa. Facciamole trovare la cena pronta. Che ne dici, se la merita? MARISEL: (sorride) sorride) Sì, credo di sì. sorride Ginevra deposita la rosa sulla tomba della nonna, quindi escono.

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adv: Chìmbe - testi: Giuseppe Pili

MI DISPIACE, NON POSSO ACCETTARE LA TUA CORTE: NON HAI ANCORA LETTO “CAGLIARI, CITTA^ DELL’AMORE”!

COME POTEVO? ERO SEMPRE QUI SOTTO A FARE IL “PILASTRO”! ORA CORRO IN LIBRERIA!

Palabanda Edizioni

Cagliari, via Genneruxi 1/c Tel: 070482316 Web: www.palabanda.it E-Mail: info@palabanda.it



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